Coraggiosi, audaci, valorosi. E giovanissimi. Sono i Diavoli Rossi, la formazione gappista della Bassa Friulana comandata da Gelindo Citossi, nome di battaglia Romano il Mancino. Misero a segno azioni tanto intrepide da poterle immaginare in un film di Quentin Tarantino, invece sabotaggi, imboscate, eliminazioni di spie e finti partigiani furono incredibilmente veri. È un omaggio dell’intellettuale poliedrico Pierluigi Visintin – scomparso nel 2008, e che ha condiviso con Citossi i natali a San Giorgio di Nogaro – il libro “Romano il Mancino e i Diavoli Rossi”. Un racconto preciso, lucido fin in ogni dettaglio, delle durissime vicende biografiche e politiche in cui operò quella squadra.
Combatte in una lotta dal sapore di leggenda nell’Adriatisches Küstenland, la Zona di operazione Litorale Adriatico, sotto diretta occupazione nazista includeva le province di Udine, Gorizia, Trieste, Pola, Fiume e Lubiana, sottratte al controllo della RSI, che però sarà complice di ogni violenza.
Si chiamavano Diavoli Rossi perché il Mancino, soprannome dovuto a una menomazione al braccio sinistro, aveva voluto rendere omaggio all’amico Romano Sguazzin, chiamato Diaul, e rossi a ricordo di Garibaldi.
Era stato proprio il Mancino a richiamare l’esperienza risorgimentale scrivendo nel suo diario che i tedeschi “furono cacciati dal patrio suolo da Giuseppe Garibaldi e che nel 1943 di nuovo i garibaldini sorgevano per soffocare i barbari”.
L’unico della brigata ad aver superato i trent’anni ispirerà anche il personaggio de Il Monco nel romanzo Il Ghebo dello scrittore friulano Elio Bartolini: mancin in friulano significa anche monco.
Ma l’intera storia della formazione sembra quasi destinata a entrare nel mito attraverso l’arte. E per capire la forza del loro sentimento resistente, basti pensare che quando il 12 settembre 1943 i tedeschi avevano occupato la città, in appena 300 avevano disarmano il XXIV Corpo d’armata composto da ben 5.000 soldati.
Una delle più clamorose e ingegnose azioni dei Diavoli Rossi è l’assalto alle carceri di via Spalato a Udine del 7 febbraio 1945. Al limite della beffa, non potrà andar giù agli occupanti.
A raccontarla in una lirica riportata nel volume di Visentin è Umberto Zilli, commissario del Gruppo Brigate nella Garibaldi Mario Foschiani e conosciuto come il poeta-contadino, che morirà il 1° maggio 1945 durante la Liberazione della sua città, Udine – Medaglia d’Oro al Valore Militare per meriti acquisiti durante la Resistenza:
Accerchian la città con vari reggimenti,
li credono migliaia ed eran solo in venti;
sparano le mitraglie e sparan rivoltelle,
ma già di tutte vuote son le celle;
sparano dei razzi,
ma fanno la figura dei miseri pupazzi.
È sera, dal camion fermo davanti al penitenziario scende un capitano nazista (“Piotto”, un caucasico che ha disertato dalla Wehrmacht, passato tra le linee della Resistenza, un altro “buon soldato Jacobs”). Bussa violentemente al portone gridando che gli aprano: deve consegnare due banditi (Gelindo Citossi e Enzo Jurich detto Ape, “l’alter ego del Mancino, coraggioso come lui, ma con una buona dose di incoscienza” scrive Visintin). Vengono brutalmente sospinti con il calcio del mitra da un gruppo di finti repubblichini. Quando la guardia apre, entra a sorpresa anche il nutrito gruppo. Gli intimano di consegnare le chiavi. Alcuni aprono le celle, fanno uscire i prigionieri, consegnano loro le armi rendendoli subito operativi mentre altri immobilizzano le guardie carcerarie, due delle quali cercano di opporre resistenza. Nei piani partigiani non c’è intenzione di uccidere nessuno, ma la loro reazione li costringe a freddarli.
Vengono quindi liberati 73 tra partigiani e prigionieri politici, sei dei quali già condannati a morte, come il comandante gappista Ilario Tonelli “Martello”, il gappista Detalmino Liva “Nino”, entrambi di Cervignano del Friuli; un maggiore e due soldati inglesi: un colpo al cuore del potere che avrà vasta eco per il significato militare e politico.
Liberati e liberatori fuggono inseguiti dai nazisti, ma riescono a far perdere le tracce nonostante i bengala illuminino a giorno le campagne e riusciranno a raggiungere la loro base a Spessa di Cividade senza aver subito perdite. A piedi, in piccoli gruppi perché il veicolo si impantana in una fossa creata da una bomba.
Definita da Radio Londra “una delle più audaci della Seconda guerra mondiale”, l’azione viene rilanciata anche da Radio Mosca che ne esalta il valore per aver sottratto, di fatto, truppe nemiche ai compiti strettamente militari, ricevendo inoltre l’encomio solenne del Comando Generale Alta Italia del Corpo Volontari della Libertà.
Come ben spiega il volume Romano il Mancino e i Diavoli Rossi, l’assalto alle carceri avviene su richiesta del Comitato Federale del Pci di Udine, che propone di pianificare un’operazione armata contro un obiettivo importante: si vuole infondere coraggio tra la popolazione stremata da fame, terrore, rappresaglie, e incutere paura fra i traditori.
L’autore ci parla anche del prezioso coinvolgimento logistico di gappisti del comune di Cussignacco che reperiscono armi, procurano un altro veicolo per la fuga e organizzano il pattugliamento. Un impegno pagato un prezzo altissimo: Pietro Zorzini detto Pierino, ispettore della Brigata Montes e Medaglia d’Argento al Valore Militare, è ucciso “dai colpi dei repubblichini” il 25 febbraio, pochi giorni dopo l’azione di via Spalato. E ci parla anche dell’impossibilità da parte dei combattenti di poter liberare le partigiane recluse nel carcere di Udine, dove tra il 1943 e il 1945 furono imprigionate oltre 500 donne della Resistenza. Più di 100 finirono nei lager, 96 nei campi di lavoro, 38 morirono in quelle celle.
La durissima rappresaglia dei nazisti arriva l’11 febbraio. Ventitré prigionieri – partigiani e ostaggi – sono fucilati contro il muro del cimitero di Udine. Saranno presidiati da una guardia armata e i loro corpi avranno degna sepoltura solo molto tempo dopo, mentre un comunicato afferma che “i ribelli sono stati condannati a morte con una sentenza del Tribunale speciale per rappresaglia all’uccisione delle due guardie giudiziarie del carcere di Udine”. Tra le mura di via Spalato il colpo di coda nazista è datato 9 aprile, quando altri 29 partigiani sono fucilati da un plotone di militi delle SS, comandato da due ufficiali della Sd-Sipo, la Sicherheit Dienst-Sicherheits Polizei, la polizia segreta tedesca.
Le carceri di Udine costituiscono uno dei luoghi degli orrori della ferocia nazista. Sin dalla primavera ’44 i tedeschi formano in Friuli i Comandi repressione forze partigiane, ogni zona ha un comando dove si consumano le più disumane vicende: nella Bassa ha sede nella caserma Piave di Palmanova. Qui centinaia di partigiani troveranno la morte dopo aver subito atroci torture. “Quella più comune – afferma Visintin – consiste nel legare i polsi della vittima, di solito nuda, con una corda, dopo averle fatto mettere le mani dietro la schiena e sospenderla con la stessa corda ad un grosso gancio infisso nel muro, lasciandola lì per ore, spesso percuotendola e gettandole addosso secchi di acqua gelida o bollente. Questo supplizio provocava la slogatura delle spalle e spesso la perdita di lucidità”.
Dopo questi patimenti, morirà il 1 novembre 1944 anche Silvio Marcuzzi detto Montes, Medaglia d’Oro al Valor Militare e ideatore dell’Intendenza, da subito uno degli obiettivi più ambiti delle strategie repressive: è una delle organizzazioni partigiane più estese di tutto il Nord Italia, ha l’incarico di mandare cibo, farmaci e vestiario alle formazioni di montagna, facendo affidamento sulla collaborazione di commercianti industriali e proprietari che per diversi motivi hanno deciso di sostenere la causa. “Silvio Marcuzzi-Montes, compagno del Mancino, impazzì dal dolore, piuttosto che parlare, morì urlando” scrive l’intellettuale Luciano Morandini in una cantata riportata nel volume.
Ingrata sarà però nei loro confronti la Repubblica Italiana, nata dalla Resistenza. Nel dopoguerra, molti gappisti, comandanti o gregari, come lo stesso Romano il Mancino, torneranno in quelle carceri che avevano liberato o dalle quali erano stati liberati, privati del lavoro e costretti a emigrare e a morire nelle miniere del Belgio o nei cantieri di Parigi o di Buenos Aires. “Insomma – chiosa l’autore di Romano il Mancino e i Diavoli Rossi – i partigiani comunisti non erano riconosciuti combattenti regolari: potevano pertanto venir torturati e massacrati impunemente, come fanno ai nostri giorni gli Israeliani con i Palestinesi”.
La targa apposta in piazza della Libertà a Udine, che ricorda il gran numero dei partigiani friulani, ventimila, non rende l’asprezza della missione e dell’abnegazione necessaria: “dalle mie ricerche – documenta Visintin – su un totale di circa 460 gappisti operanti in provincia di Udine e riconosciuti come tali, i caduti sono circa 110, una percentuale altissima che dà l’idea della durezza della loro lotta”.
Tra loro ricordiamo Antonio Fedrigo “Lampo”, uno dei Diavoli Rossi, arrestato, torturato e fucilato dai tedeschi per rappresaglia il 22 marzo 1945, in via Pradati a Cervignano, insieme ad altri tre partigiani: Idilio Cappelletto, di Chiarano (TV) ma residente a Monfalcone; Derno Paravano “Milo” di Torsa di Pocenia e al milanese Giorgio De Santi “Milan”.
“Lampo” insieme a un altro partigiano, Rino De Sario “Germano”, stavano tornando in bicicletta da una requisizione, quando vennero sorpresi dai tedeschi. “Lampo” riesce a distrarre i componenti del posto di blocco e permettere all’amico di salvarsi buttandosi nel fiume Corno. Ma per lui non c’è scampo. Ha appena 19 anni e già un figlio di quattro mesi che aveva chiamato Romano, proprio in omaggio al suo comandante. Spesso i Diavoli Rossi si riuniscono nella casa di Lampo, nel comune di Carlino, e sarà proprio il Mancino, come riporta nel diario, a giustiziare il colpevole della fucilazione del suo giovane amico.
Una memoria da proteggere e coltivare con un ringraziamento a quegli eroi: “Ascoltare persone che occupano posti importanti nella nostra società che si dichiarano fascisti e sostengono che il fascismo non era poi così male, mi preoccupa” ha detto Romano Fedrigo, il figlio di Lampo, nel corso della commemorazione del 22 marzo scorso che come ogni anno si tiene sul luogo dell’eccidio alla presenza degli studenti e delle studentesse degli istituti scolastici locali, di rappresentanti delle istituzioni e dell’Anpi regionale e della sezione di Carlino-Marano Lagunare e una delegazione della sezione di Bra (CN).
“Dobbiamo ripeterlo ai giovani: mio padre Antonio, come tantissimi uomini e donne, è morto per la libertà di questo Paese e fa male questo odio che si sta diffondendo con gruppi fascisti che si organizzano, manifestano, commemorano”.
E che ora sembrano sempre più vicini a posizioni apicali nel governo del Paese.
Mariangela Di Marco
Pubblicato martedì 16 Agosto 2022
Stampato il 03/12/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/terza-pagina/librarsi/lampo-diavoli-rossi/