«C’è un cippo al ponte di Perletto. “Partigiani immolati perché la patria non avesse a perire”, c’è scritto nel linguaggio aulico delle lapidi. Sopra, una stele con una piccola croce e, in ordine alfabetico, diciotto nomi. Di un paio, più che il nome esatto, un appellativo con cui erano chiamati dai compagni».
Tra quei diciotto nomi, l’ultimo per l’esattezza, è quello di Ermanno Vitale, Medaglia d’argento al valor militare alla memoria, concessa il 13 febbraio del 1953.
Capita, a volte, che la microstoria aiuti a dipanare e meglio comprendere la grande storia, le vicende dei popoli e delle nazioni. Capita che puntando l’obiettivo su quelli che vengono sbrigativamente ritenuti “personaggi minori”, si colga il divenire storico nella sua profondità. E quando capita si è davanti a una grande storia. Questa sensazione lasciano le pagine del bel libro di Donatella Alfonso, giornalista e scrittrice che da anni si dedica alla storia della Resistenza italiana. Stavolta con La ragazza nella foto – Un amore partigiano, scritto a quattro mani con Nerella Sommariva, figlia della protagonista femminile del libro, la Alfonso scandaglia le Langhe sulle tracce di Agata Maria Berchio e del suo moroso, il partigiano delle brigate Giustizia e Libertà, Ermanno Vitale, per tutti “Manno”, morto il 12 febbraio 1945 in un’azione di guerra al ponte di Perletto. Una storia d’amore, intensa, dolorosa e difficile – lei povera figlia di contadini, lui erede di una ricca famiglia ebrea di Alessandria – che Maria porterà sempre con sé, anche quando, a guerra finita, conoscerà e poi sposerà un altro uomo, Emilio Sommariva. Eppure, la figura di Ermanno, il suo sacrificio, aleggeranno per sempre in casa di Maria. “Manno”, grazie ai discorsi che si fanno in casa, alla vecchia scatola di foto e lettere che la donna conserva con amore e «che apre solo per sé e per i figli», resterà una presenza importante e familiare per Nerella e suo fratello Pierluigi.
Sono proprio loro a raccontare a Donatella Alfonso la vicenda di Maria e di Ermanno, a mostrargli le foto e lettere che i due si scambiavano nei mesi terribili dell’occupazione nazifascista. È da quelle conversazioni che nasce questo libro in cui, appunto, la microstoria, i sentimenti, le intime passioni, accompagnano gli eventi della Resistenza nel nord ovest del Paese. Vicende personali e collettive si intrecciano, offrono una scala di osservazione diversa e danno il senso profondo di cosa abbia rappresentato per migliaia di uomini e donne la lotta al fascismo. Di queste donne e uomini molti furono ebrei. Come Ermanno. Ermanno – che ha scelto di diventare medico «ma che è anche attento a quanto accade intorno a lui, alle restrizioni imposte dal fascismo» – ha deciso che se si presenterà l’occasione non resterà a guardare. E l’occasione arriva l’8 settembre del 1943. “Manno” si unisce alle prime bande di Giustizia e Libertà che si organizzano in quelle settimane sotto la guida di Enrico Martini, “Mauri”, il maggiore degli Alpini diventato comandante partigiano delle brigate autonome. È in questi mesi che le due storie, quella di Ermanno e di Maria, si incrociano. Si incontrano una sera di primavera del 1944: un gruppo di combattenti partigiani esce dal ciglio della strada e blocca quella bella ragazza che sta pedalando nella sua bicicletta nuova fiammante. Vogliono la bicicletta. «“Manco morta!” ribatte la ragazza e cerca di salire in sella e andarsene. Il partigiano insiste, ma arriva un altro ragazzo: mette la mano sul manubrio e dice al compagno di andarsene e lasciar perdere. “Ermanno, Ermanno Vitale”, le dice porgendole la mano».
Sarà una storia d’amore intensa e breve, colma di lettere appassionate, di incontri clandestini e di altrettanto appassionate discussioni, di impegno comune nella Resistenza (anche Maria non esiterà un attimo nel mettersi al servizio della lotta come staffetta). Una storia interrotta brutalmente dai proiettili dei repubblichini della San Marco che in quel febbraio del ’45 al ponte di Perletto, travestiti da partigiani, tesero un’imboscata al gruppo di Ermanno. I nazifascisti intendono ad ogni costo prendere possesso di quel ponte e di quella strada della Val Bormida, tra Liguria e Piemonte, così importante da un punto di vista strategico. E già, perché a poca distanza dal ponte c’è “Excelsior”, un piccolo aeroporto nascosto tra vigneti e campi di grano, fondamentale sia per le formazioni partigiane sia per gli Alleati.
Sul giovane ragazzo ebreo i fascisti della San Marco si accaniranno con ferocia. «Ferito ripetutamente, esaurite le munizioni, avrebbe potuto mettersi in salvo – si legge nella motivazione dell’onorificenza – ma non lo fece per non abbandonare i compagni, fidando in quel trattamento leale che Egli pensava avrebbero usato gli avversari verso un ferito: invece fu messo inesorabilmente a morte e il suo corpo orribilmente straziato con altri venti compagni di lotta». Eppure giustizia non ci sarà. Nei primi anni 50 il tenente colonello Vito Marcianò, responsabile di aver organizzato i rastrellamenti nell’astigiano e delle fucilazioni dei partigiani al ponte di Perletto «era già libero. L’Italia non ha fatto, nel suo caso come in migliaia di altri, i conti con il suo passato», ci ricorda Donatella Alfonso.
L’autrice dedica un capitolo al ruolo svolto dagli ebrei nella Resistenza, uomini e donne che proprio per il loro credo religioso rischiavano più degli altri. Una vicenda, quella dei partigiani ebrei, tutta da ricostruire. Per quel che riguarda il Piemonte lo hanno fatto con un pregevole lavoro Gloria Arbib e Giorgio Secchi con Italiani insieme agli altri. Ebrei nella Resistenza in Piemonte 1943-1945. I due studiosi hanno identificato 174 nomi di ebrei che hanno combattuto nella Resistenza piemontese. Di questi, 44 vennero arrestati; 37 persero la vita in combattimento; 16 furono deportati nei campi di sterminio. Arbib e Secchi scrivono nel loro lavoro che «secondo lo storico Sarfatti gli ebrei resistenti attivi furono circa un migliaio (…). I certificati di “partigiano combattente” rilasciati dopo la guerra sono, in tutta la penisola, 233.000. Se ipotizziamo che solo due terzi dei partigiani ebrei li abbiano ricevuti, il loro numero costituisce pur sempre il 2,8 per mille dei partigiani italiani, ovvero tre volte la proporzione della popolazione ebraica in Italia». A questo migliaio di combattenti, scrive Donatella Alfonso, «va aggiunto un numero uguale di “patrioti”, con la massima concentrazione in Piemonte, 700 persone tra gli uomini attivi nelle bande e impegnati in maniera diversa nella lotta di Liberazione».
La storia d’amore tra Ermanno e Maria può essere anche letta come un tentativo di superare le differenze di classe in un Paese in cui il confine tra benestanti e contadini è quasi insuperabile. Cosa sarebbe accaduto se Ermanno fosse vissuto? Chi lo sa. Nella famiglia Vitale la storia d’amore tra i due giovani quasi non era esistita. A riscoprirla, grazie a Nerella, il nipote di Ermanno, che porta lo stesso nome dello zio partigiano. Per l’Ermanno Vitale di oggi, allievo di Norberto Bobbio, docente di Filosofia politica e vicepresidente dell’Anpi di Chivasso, quella scoperta ha un significato profondo: una maniera di restituire a “Manno” un pezzo di quella gioventù rubata dalla storia e dalla dittatura.
Pubblicato giovedì 26 Ottobre 2017
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