Dopo averlo letto e forse riletto, riponendo il libro nello scaffale, difficilmente ci si libera subito dalla storia raccontata da Pino Fabiano in Come il bue di Rembrandt, sottotitolo Storia di un balordo dell’est, Edizioni sensibili alle foglie. Il racconto/testimonianza della vita di Janos ti induce a pensare, a riflettere, con umiltà e partecipazione. Una narrazione breve, quasi a voler dire l’essenziale senza perdersi in diversivi letterari e abbellimenti linguistici. Una vicenda dura e vera con annotazioni storiche sulla tragedia delle Dittature, sui fatti di Praga e sulla disillusione del dopo.
Interroga le nostre coscienze la vita turbolenta di questo giovane quando afferma: “Jan Palach conquistò la sua libertà con la morte e io, in nome di quella libertà, ho smarrito la mia vita. Magari fossi morto come lui, avrei evitato di trascinare così a lungo questa dannata esistenza”. Non si può negare che sia stato un calvario la vita di Janos. Senza averlo cercato, nel dramma ci si è trovato per una voglia insopprimibile degli ideali di libertà e giustizia, di difesa della dignità dell’uomo. In fondo gli sarebbe bastato adeguarsi al regime come tanti giovani della sua età, oppure come suo padre fedele e obbediente senza esitazioni. Avrebbe avuto la strada spianata nella vita. Eppure, con la determinazione dei suoi sedici anni, Janos non volle piegarsi a nessuna autorità – né quella paterna, né quella della nomenclatura di regime – perché convinto di “stare dalla parte giusta e lottare per qualcosa di bello e affascinante”. Da queste convinzioni cominciano le tribolazioni di Janos, il carcere, l’isolamento, la rottura totale con la famiglia, le difficoltà economiche. A completare il quadro di tanta amarezza si aggiunge la delusione del dopo regime per nulla propenso a riconoscere il suo passato di ribelle. Anzi con nuove richieste di responsabilità come si deve nella costruzione della democrazia.
“Avevo movimentato il dissenso durante la dittatura per ritrovarmi oppresso nelle brutture totalitarie della storia e poi, vent’anni dopo, tagliato fuori dai nuovi processi di una storia dalla connotazione democratica, o presunta tale”. Per tante sere e tante notti Janos, arrivato con il suo carico di disperazione in un paesino dell’entroterra calabrese, ha cercato di narrare e spiegare la sua esistenza. Il grande merito dell’autore è di aver custodito per alcuni anni questo racconto convinto anch’egli che “il tempo purtroppo cambia molte persone, le inaridisce, il desiderio e l’ambizione frantumano le identità, la memoria subisce il saccheggio”. Ma non è solo l’intento di raccontare la tragedia di un uomo ad aver spinto Pino Fabiano a scrivere Come il bue di Rembrandt. Si coglie tra le righe una sensibilità autentica a parlare anche dell’oggi, di quanti “invisibili e balordi” non ci accorgiamo se non nella loro tragica fine. Come scrive Don Giacomo Panizza nella prefazione: “conosciamo solo i loro reati senza sapere nulla delle loro vite”. Chissà se il dipinto di Rembrandt ci farà aprire gli occhi.
Pubblicato giovedì 1 Ottobre 2015
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