La storia è materia viva, è magmatica, è fluida, sempre in movimento. In storie che non fanno la Storia lo storico Carlo Greppi ci guida alla sua scoperta, ci sprona: «Mettersi a caccia, sondare ogni pista, scavare». Quello dello storico e della storica è un lavoro individuale, potremmo dire intimo, e allo stesso tempo collettivo per i rivoli in cui si perde e si ritrova. Fare storia significa condurre un’inchiesta: «Quello che muove ogni persona che si guarda indietro è il voler andare avanti; attraverso la storia noi gridiamo a gran voce chi siamo, e cosa vogliamo diventare». Con la sua capacità divulgativa Greppi decifra e analizza il racconto storico, ci guida nell’uso delle fonti, ci mette in guardia da possibili inciampi.
«La ricerca storica scava, indaga, spolvera, interroga; ripropone a chi è vivo oggi storie di chi ha vissuto ieri: vecchie conoscenze sedimentate e inediti percorsi, di norma anche grazie alla scoperta di nuove fonti, su vicende che qualcuno, per forza di cose, in passato deve avere conosciuto. Fosse anche solo la comunità umana di riferimento – la famiglia, il quartiere – del “signor nessuno” o della “signora nessuno”». La ricerca può andare a scovare quel «tipo di persone i cui nomi sono di solito ignoti a tutti, se non a familiari e a vicini, nonché, nelle moderne organizzazioni statali, agli uffici che registrano nascite, matrimoni e decessi», come scriveva Eric J. Hobsbawm introducendo nel 1988 Gente non comune. Storie di uomini ai margini della Storia. E «questi uomini e queste donne formano la gran parte della specie umana. Le discussioni degli storici sull’importanza degli individui e delle loro decisioni non li preoccupano».
Greppi spazia da Carlo Ginzburg all’operaio-scrittore Vincenzo Rabito, da Eric J. Hobsbawm a Alain Corbin, fino al muratore semianalfabeta Lorenzo Perrone, che salvò la vita a Primo Levi, e la cui storia proprio lo storico torinese ha tolto dall’abisso dell’oblio con Un uomo di poche parole. Storia di Lorenzo che salvò Primo (Laterza 2024).
Non si tratta solo di solcare il filone della microstoria/e ma, come giustamente sottolinea Greppi in storie che non fanno la Storia, c’è anche un “portato civile” della professione dello/a storico/a, ovvero cercare di riequilibrare i rapporti di forza che nel racconto del passato in qualche modo continuano a certificare l’importanza di figure minori, ma non per questo secondarie, nel presente. Potremmo dire che siamo di fronte alla rivincita degli sconfitti. Ci ricorda il profondo senso di responsabilità che investe ogni storico e storica che perseguono incessantemente il rigore nella ricerca, e allo stesso tempo il suo pamphlet indica la strada per “fare storia”, ovvero seguire anche i rivoli, “navigare in un oceano di incertezze”, per dirla con Edgar Morin. Ha scritto lo storico Edward Carr che fare storia non significa solo ricostruire, ma anche interpretare, altrimenti il passato si trasformerebbe «in un guazzabuglio di avvenimenti casuali e insignificanti».
Pensiamo agli appunti del giovane romano Orlando Orlandi Posti, martire di appena diciotto anni torturato nel carcere di via Tasso e ucciso alle Fosse Ardeatine (e insieme a lui altri suoi coetanei). Trentanove foglietti che formano un diario dei giorni di prigionia nella sua città. Come ha scritto Camillo Brezzi «questi piccoli biglietti sono lo strumento attraverso il quale Orlando tenta di riallacciare un legame con il mondo esterno, con gli affetti, un modo di trovare un conforto in quella tragica situazione che preannunciava la morte». Una storia privata, eroica, ma che ci racconta (indirettamente) quei giorni, ci fa respirare il clima dell’occupazione nazifascista, la violenza eccezionale della guerra che spezza vite innocenti, storie sentimentali, affoga speranze.
E ancora, saltando nei secoli, al diario del diplomatico britannico Roger Casement che denunciò gli orrori del colonialismo belga e morì sul patibolo in Inghilterra per aver abbracciato la causa dell’indipendenza irlandese. Tutti chicchi di un melograno, storie molecolari, ma umanamente e storicamente fondamentali.
E come loro migliaia e milioni di storie di ragazze e ragazze, di donne e uomini che ancora attendono che un ricercatore o una storica incroci quelle esistenze e se ne appassioni investigando e scavando nelle loro vite. E così vengono resi “visibili” agli altri, si umanizzano, si rifanno vivere, ed entrano nella Storia. Sono storie che aiutano a capire la Storia, alcune volte addirittura a svelarla.
Già nel suo La storia ci salverà Greppi invitava a riflettere sul rapporto complesso tra storia e realtà: «è una sorta di braccio di ferro tra il punto di vista di chi la racconta e la natura verificabile dei fatti che sceglie di raccontare, seguendo degli interrogativi». Ecco perché quello dello storico torinese è un approccio attualissimo. Pensiamo ai nuovi dannati della terra che fuggono dai Paesi africani e sfidano il Mediterraneo, ai desaparecidos di questo secolo che da quelle acque vengono inghiottiti, o alle schiere dei nuovi miserabili che vengono sfruttati per quattordici ore e lasciati morire nelle campagne dell’Agro Pontino.
Vite che non entreranno mai nella Storia ma che lo storico è invece chiamato a ricostruire per dar loro voce e dignità, a maggior ragione in un Paese attraversato da conati razzisti. Greppi si sofferma anche sugli insegnamenti dell’insuperabile Alessandro Leogrande, e allora come non ricordare che nel suo La frontiera, quasi un decennio fa, ammoniva tutti a fare i conti con le storie dei migranti e dei profughi: «Eppure nessuno inizia a vivere nel momento in cui l’imbarcazione che lo trasporta appare davanti alle nostre coste: il viaggio ha avuto inizio prima, anche anni prima, e i motivi che l’hanno determinato sono spesso complicati». Ecco perché, per Greppi «ricostruire la storia di persone straordinariamente ordinarie e un’avventura umana, da un lato, e al contempo un percorso a ostacoli che vale la pena narrare». Proprio per questo motivo «ogni essere umano merita di per sé a mio avviso, una biografia».
E Greppi lo fa con la sua capacità di dare tridimensionalità ai personaggi che incontra nelle ricerche che affronta. Imprime movimento, intensità e spessore alla narrazione, sempre rigorosa. Ci ricorda che la storia raccontata è materia viva e coinvolgente. Il lettore viene consumato da un’avida curiosità, è attratto dagli spunti che lancia lo storico e viene risucchiato dalla e nella Storia. Si tratta di un approccio impostato sull’aspetto della “soggettività” che domina su quello della “oggettività” o “obiettività”. In questo modo «chi scrive può coinvolgere il suo pubblico e assumersi una responsabilità più nitida. La soggettività di chi cerca e scrive, anche quando non è esplicitata è naturalmente implicita».
Le Goff ricordava che «non esiste un documento oggettivo, innocuo, primario», perché ogni documento «è sempre e comunque il risultato dello sforzo compiuto dalle società storiche per imporre al futuro – consapevolmente o inconsapevolmente – quella data immagine di sé stesse». Greppi conferma che «chi firma un libro o un qualunque prodotto culturale di fatto traduce un suo percorso, dispone un discorso» contro la pretesa di oggettività. Chi esercita il mestiere dello storico sa bene che non esiste oggettività o equidistanza, ma solo il rigore della ricerca e l’onestà intellettuale. E Greppi si muove in questo terreno, gioca da questa parte del campo.
Andrea Mulas, storico Fondazione Basso, autore di numerosi libri, ultimo in libreria “L’oro introvabile. Saverio Tutino e le vie della rivoluzione”
Pubblicato venerdì 22 Novembre 2024
Stampato il 22/11/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/terza-pagina/librarsi/la-rivincita-degli-invisibili-senza-di-loro-non-puo-esistere-narrazione-pubblica-del-passato/