C’era ‘n ber sole è la storia di Settimia Spizzichino, unica donna sopravvissuta al rastrellamento, la razzia degli ebrei romani del 16 ottobre 1943. Il Sabato Nero. Quel giorno era Shabbat, il giorno del riposo. Nazisti tedeschi, con liste fornite dai fascisti italiani, rastrellarono 1.266 romani di religione ebraica: 252 vennero successivamente liberati, perché misti o coniugi di matrimoni misti. Dei 1.016 rimasti, 434 erano abitanti del quartiere ebraico, 565 venivano da altri quartieri, quasi il 30 per cento aveva meno di 15 anni. Ne sopravvissero 16, e una donna soltanto. Quella donna si chiamava Settimia Spizzichino e fino alla morte, avvenuta nel 2000, non ha mai smesso di testimoniare, incontrando nel corso degli anni migliaia di ragazze e ragazzi, nelle scuole e durante i viaggi ad Auschwitz.
L’autrice Ilaria Patamia racconta, nelle note alla fine del libro, di essere stata una di quelle ragazze, e di avere “sbattuto” nello sguardo di Settimia Spizzichino in un incontro nella sua scuola. L’incontro con gli occhi di Settimia le hanno aperto, come ha detto lei nella prima presentazione alla Casa della Memoria e della Storia di Roma lo scorso 16 ottobre, un buchino nel cuore che poi negli anni si è allargato quel tanto che bastava per farci entrare una storia.
La storia di due sorelle, Settimia e Gentile. Una viene deportata ad Auschwitz, l’altra riesce a scampare alla razzia, e aspetta a casa senza sapere se e chi tornerà. Insieme a Settimia, infatti, quel giorno vennero rastrellate anche la madre Grazia Di Segni, le altre due sorelle Ada e Giuditta, e la nipotina di due anni Rosanna Calò, figlia di Ada, di due anni appena. A loro quattro, che non tornarono, furono dedicate le prime Stolpersteine, le pietre d’inciampo, messe a Roma. A via della Reginella 2, nel quartiere ebraico, dove la famiglia Spizzichino abitava.
Il giorno in cui Settimia tornerà a casa, quasi due anni dopo quel giorno tremendo e dopo aver vissuto l’inferno, quello vero e non quello che non si sa se c’è sul serio, era una bella giornata di sole, c’era ‘n ber sole, raccontava Settimia. In quei due anni il tempo, per le due sorelle, rimase sospeso, appeso al dolore di entrambe. Quello di Settimia, l’orrore impensabile e indicibile di Auschwitz, l’abisso oscuro dell’umanità che si chiama Shoah, e quello di Gentile, che è scampata all’orrore e si sente in colpa e si domanda se non sarebbe stato meglio portassero via lei. Il testo di Patamia è un testo potente nel mostrare la sconfinata enormità della tragedia della Shoah, proprio in questo scambio di battute serrato fra chi è rimasto e chi è stato condannato al lager. La giornata convulsa della razzia, quel salvarsi o essere deportati magari per un caso del destino – «la scelta sbagliata o er rischio che se rivela giusto e tutto er destino tuo se gioca in una manciata de secondi» dice Gentile – e poi due anni di sofferenza. Settimia e la sua famiglia, secondo Patamia, incarnano tutta l’esperienza della sofferenza umana, ma anche della rivincita nell’ostinazione alla vita, nel voler tornare e poi nel voler raccontare.
Se pensate di conoscere la storia della Shoah, sappiate che non è così. Non si può conoscere l’orrore se non lo si è vissuto, e comprenderlo è impossibile. Due momenti del libro, su tutti, sorprendono e commuovono in modo particolare. L’arrivo di Settimia ad Auschwitz, e il battibecco con la sorella per chi dovesse tenere in braccio la piccola Rosanna. La sorella Ada insistette per tenerla lei, e questo fece sì che venissero mandate subito alle camere a gas, insieme a mamma Grazia. Aldo Pavia, amico di Settimia Spizzichino, ricorda nella postfazione che un giorno nel ricordare quell’episodio, Settimia disse che la sorella era stata fortunata, perché non aveva conosciuto Auschwitz. Nel testo di Patamia il bisticcio fra le due sorelle si conclude con Settimia che dice «E j’ho rimesso in braccio Rosanna, maledetta a me. Ma nun potevo tenella io? Così magari mo’ era Ada a torna’ a casa dalla famija sua e no io che nun c’ho nessuno!».
E Gentile, che parla della guerra, e del fatto che quando si sta in guerra si muore di continuo, ogni giorno muori e ogni giorno rinasci. Questo morire di continuo, si domanda, è forse la ragione per cui alla fine uno si lascia morire per l’ultima volta? «Nun lo fa perché nun vole vive, lo fa perché non ce la fa più a mori’ tutte ‘ste volte, a mori’ dentro». Gentile parla di chi vive l’atrocità del lager, ma non solo, e lo capiamo quando conclude: «E se mo’ me metto a pensa’ a loro, me chiedo…come j’è andata quando so’ scese dar treno? So’ morte subito? So’ morte ‘n po’ ogni giorno? O so’ riuscite a rinasce tutte le vorte e mo’ stanno a torna’? E ‘sto tira e molla fra la vita e la morte me sospende in un tempo che non è più vita e nun è ancora morte…o forse è tutt’e due. Ogni giorno, tutt’e due».
Il tempo sospeso di Settimia e Gentile lo possiamo vedere, quasi toccare, nella bella copertina di Giulia D’Ottavi: un tempo che, seppure chiaramente definito con un passato alle spalle – il filo spinato e un futuro davanti – il portone di via della Reginella 2 – vede però Settimia perfettamente al centro, in un biancore indefinito che fa eguagliare il peso del passato con quello del presente e quello del futuro, il peso del tempo che Settimia si porterà sempre dietro. Contenuto nello zaino che ha sulle spalle, e che svuoterà durante tutta la sua vita, incontrando gli occhi di chi ad Auschwitz non c’è stato, perché non accada mai più.
Quando si scrive e si pubblica un libro la domanda da farsi deve sempre essere: perché farlo? È Amalia Perfetti, curatrice del libro e autrice della bellissima prefazione in cui riesce a introdurci non solo alla storia di Settimia e della sua famiglia, ma anche a quella del ghetto romano voluto dai papi per trecento anni, a rispondere: «“E che cosa accadrà quando noi non ci saremo più? Si perderà il ricordo di quell’ infamia?”, si domandava Settimia Spizzichino. Credo sia per rispondere a queste domande che Ilaria Patamia abbia scritto e messo in scena C’era ’n ber sole ed è con questo stesso intento che ora lo pubblichiamo, perché la memoria di quello che è stato non vada persa e perché Settimia e Gentile possano parlarci ancora oggi».
Un libro che è anche il frutto di un felice incontro di tre donne, l’autrice. la curatrice e l’illustratrice, in un ideale percorso di sorellanza con Settimia e Gentile, con una casa editrice, People, che conferma il suo impegno nel coltivare e curare la memoria, e nel cercare sempre quell’approfondimento che aiuta ad orientarsi anche in tempi in cui ci si trova a volte sperduti in una confusione di paradossi. Un libro che ci restituisce anche, grazie alla preziosa postfazione di Aldo Pavia la Settimia Spizzichino ebrea romana, donna di straordinaria personalità e sagacia “innamorata persa della sua città”.
La memoria, ci ha detto Patamia, è un piatto che non è stato apparecchiato a tavola, il 16 ottobre del 1943 ha lasciato ancora oggi dei piatti non apparecchiati a tavola a Roma, una mutilazione che non possiamo e non vogliamo dimenticare. Infine, una piccola nota faceta: il testo è tutto in romanesco, la lingua dei romani e quindi di Settimia e Gentile, ma non abbiate paura: alla fine del libro troverete un piccolo glossario per orientarvi tra mammatroni e baccajate.
Giovanna Pesci, Coordinamento Donne Anpi provinciale Roma “Tina Costa”
Pubblicato venerdì 6 Dicembre 2024
Stampato il 11/12/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/terza-pagina/librarsi/la-memoria-e-un-piatto-non-apparecchiato-a-tavola-storia-di-settimia-spizzichino/