cover - l'impostoreIl punto più alto della parabola esistenziale del catalano Enric Marco, adesso novantacinquenne, è stato raggiunto il 27 gennaio del 2005 quando, in rappresentanza dei sopravvissuti spagnoli alla Shoah, tenne il discorso più importante di fronte alle Cortes riunite per i sessant’anni della liberazione di Auschwitz da parte delle truppe sovietiche. Un discorso meraviglioso e terribile, quello del vecchio superstite al lager di Flossenbürg, e allo stesso tempo così esemplare per gli atti di coraggio e dignità ricordati che commosse il parlamento spagnolo. Qualcuno pianse. C’era solo un problema, Marco non era mai stato in un campo di concentramento e si era inventato tutto, come fu rivelato qualche settimana dopo dallo storico Benito Bermejo.

Marco non era uno sconosciuto era un’autentica superstar della memoria storica spagnola, anzi la sua incarnazione vivente: petulante, torrenziale, affascinante, presente ovunque con la parola e con gli scritti, vezzeggiato da giornalisti e televisione, Marco era il testimone della parte migliore della storia ispanica del Novecento. Giovanissimo combattente repubblicano, resistente antifranchista in clandestinità nei decenni della dittatura poi, dopo la fine del franchismo, leader sindacalista della rinata CNT, lo storico sindacato degli anarchici, e infine, dagli anni Novanta, simbolo dei sopravvissuti ai lager nazisti e capo attivissimo della “Amical de Mauthausen”, l’associazione degli ex deportati catalani nata nel 1962.

Come scrive e dimostra Cercas il passato glorioso ed eroico di Marco è completamente inventato. Marco non ha mai fatto nessuna resistenza clandestina, non è mai stato un combattente repubblicano, se non per qualche tratto della sua vita, e non è mai stato a Flossenbürg. È stato in Germania, ma nella città di Kiel, nel 1941 e come lavoratore volontario, come migliaia di spagnoli, per il Reich nell’ambito di un accordo tra Franco e Hitler.

Verso i 50 anni, come il Don Chisciotte di Cervantes, in contemporanea con l’agonia del franchismo, Marco reinventa la sua vita e diventa uno specialista della mistificazione, reinventa un passato eroico di cui lui era l’unus testis mescolando minime verità a una montagna di falsità, «adeguando la fantasia alle sparse nozioni» si potrebbe dire con lo Sciascia del Consiglio d’Egitto che di imposture era esperto. 

Enric Marco (da http://images.ara.cat/opinio/Cercas-que-Marco-memoria-no_ARAIMA20150223_0007_4.jpg)
Enric Marco (da http://images.ara.cat/opinio/Cercas-que-Marco-memoria-no_ARAIMA20150223_0007_4.jpg)

Decostruire le menzogne di Marco e insieme comprenderlo è il tentativo di Cercas, capire perché il mediocre Alonso Quijano diventa a un certo punto il valoroso Don Chisciotte. Lo scetticismo permanente dell’autore di fronte al bugiardo eccezionale si concretizza nei suoi continui «eso dice» o «dice que».

Lo scrittore spagnolo cerca di andare al di là della presa d’atto delle menzogne di Marco, scavando all’interno di una personalità picaresca, narcisistica, debordante, che si appropria di un passato non suo, pressappoco come lo Zelig di Woody Allen, per riscattare un passato mediocre e ordinario di operaio anarchico e libertario. Comprendere la psiche di Enric Marco e allo stesso tempo elevarlo a massimo esempio di impostura epocale nella Spagna tra franchismo e democrazia è il senso stesso de L’impostore.

Con la fine della dittatura in Spagna si doveva colmare un vuoto di memoria storica, la memoria degli sconfitti, quella dei trucidati e degli esiliati della guerra civile; fino agli anni 70 il racconto del passato era stato gestito da Franco e il suo “correlativo oggettivo” è visibile nel complesso monumentale della Valle de los Caìdos. Il necessario recupero della memoria storica delle vittime del franchismo, istituzionalizzato anche da una legge del 2007, caratterizzò la Spagna dagli anni Ottanta in poi; si trattò, scrive Cercas, di una sorta di fenomeno collettivo in cui si rischiò di annacquare ogni senso e responsabilità storica. Una fabbrica della memoria che sfornava libri, film, fiction, che sacralizzava acriticamente il testimone e che trasformò il passato in qualcosa di consolatorio e superficiale. Qui si inseriva Marco, con le sue vicende romanzesche prima di antifranchista e poi di deportato spagnolo, con un passato che rasentava a volte il feuilleton come quando raccontava di sé giovane che al cinema non si alzava in piedi alle note di Cara al sol, l’inno dei falangisti; o come quando raccontava della sua epica partita a scacchi con una SS a Flossenbürg, ricordo che contrastava con la memoria dolorosa, grigia e poco eroica degli altri deportati.

«La democrazia spagnola si fondò su una grande menzogna collettiva, o piuttosto su una lunga serie di piccole menzogne individuali, perché come sapeva meglio di chiunque anche lo stesso Marco, nella transizione dalla dittatura alla democrazia moltissima gente si era costruita un passato fittizio, mentendo quello vero o truccandolo o abbellendolo per adattarsi meglio al presente e prepararsi al futuro, tutti desiderosi di dimostrare di essere democratici da sempre, tutti inventandosi una biografia di oppositori segreti, resistenti silenziosi o antifranchisti in sonno o attivi, allo scopo di occultare un passato da apatici, pusillanimi o collaborazionisti, e per questo in quel periodo di reinvenzioni di massa, Marco non fu un’eccezione bensì la regola». Marco diventa per Cercas il simbolo di una nazione che cercava di scrollarsi di dosso gli anni della dittatura, dimenticandola o relegandola nel cuarto di atràs (in soffitta). Un complesso e ambiguo passaggio tra due momenti della storia di Spagna in bilico tra rimozioni e cambiamento come ha raccontato nel film La isla mìnima (2015) il regista Alberto Rodriguez.

In questo splendido libro, che ha come unico limite la riflessione un po’ incongrua e verbosa con la quale Cercas si interroga anche sulla impostura della letteratura e degli scrittori, alla fine si tocca un punto fermo della nostra psicologia collettiva e individuale, ossia la necessità della menzogna, la necessità che ognuno, anche solo per un istante, ceda alla mitobiografia di sé, al bisogno di quello che Ortega y Gasset, nelle Meditazioni del Chisciotte, chiamava «la voluntad de aventura»,cioè una fuga dall’abitudine e dal ritmo prosastico e compromissorio del quotidiano: «Marco […] è un uomo comune. Non c’è nulla da rimproverargli, naturalmente, tranne l’aver tentato di farsi passare per eroe. Non lo fu. Nessuno è obbligato a esserlo. Per questo gli eroi sono eroi: per questo sono un’infima minoranza».

In fondo le invenzioni di Marco sono paradossalmente la sua tesi difensiva: ha detto il falso per meglio diffondere la giustizia e la democrazia; ha parlato di Shoah e dei novemila deportati spagnoli quando in Spagna se ne parlava ben poco.

Forse si può concedere a Marco la libertà di divulgare il verosimile ma a patto che, in nome della verità storica del testimone, il verosimile si riconosca come tale.

Sebastiano Leotta, docente di storia e filosofia al liceo “Cornaro” di Padova