Un’odissea partigiana è un libro che si legge con amara e impotente costernazione, specialmente se si è nati troppo tardi per aver sperimentato il clima politico dell’immediato dopoguerra, quando i nuovi equilibri della guerra fredda contribuivano a determinare decisioni manifestamente in conflitto coi valori per i quali la Resistenza aveva combattuto.
Dante Livio Bianco, nel suo Partigiani e CLN davanti ai tribunali civili, scriveva: «Se qualcuno, quando eravamo sulle montagne a condurre la guerra partigiana, fosse venuto a dirci che un bel giorno, a guerra finita, avremmo potuto essere chiamati davanti ai tribunali, per rispondere in via civile di atti che allora erano il nostro pane quotidiano, gli avremmo riso francamente in faccia». E invece fu proprio quello che accadde.
Franzinelli e Graziano, prima di lasciare spazio alle storie personali di alcuni dei “pazzi per la libertà” (così venivano chiamati i partigiani condannati con le attenuanti della seminfermità mentale e reclusi negli Ospedali Psichiatrici Giudiziari), ricostruiscono sinteticamente ma efficacemente – numeri alla mano – il processo di mancata epurazione di membri fascisti, o collusi col regime di Mussolini, dalle istituzioni della neonata Repubblica italiana: università, polizia, prefetture, magistratura…
Guido Leto, ex capo dell’Ovra, dopo una breve carcerazione a Regina Coeli, diviene direttore tecnico delle Scuole di polizia.
Nel 1946 i prefetti nominati del CLN sono rimpiazzati da “fidati” funzionari che avevano fatto carriera agli ordini di Mussolini.
Alle Corti di Cassazione e di Appello restano tenacemente radicati magistrati autocrati e conservatori; a catena l’intero sistema giudiziario rimane popolato da uomini forgiatisi nel Ventennio (nell’Alta Italia, su 1.248 istruttorie per epurazione solo 24 vanno a buon fine): il pm Vincenzo Eula, che aveva condannato Parri, Pertini e Carlo Rosselli per l’espatrio di Turati, diviene procuratore generale della Cassazione; Luigi Oggioni, già procuratore della RSI, sarà presidente della Corte di Cassazione e poi giudice della Corte Costituzionale.
Ma sconvolge doppiamente, accanto a questa trasmigrazione di elementi fascisti nelle istituzioni repubblicane, la complementare volontà discriminatrice e punitiva delle stesse verso i combattenti per la libertà. Molti di loro furono vittime di ordini di cattura emessi sulla base dei soli rapporti stilati dalla polizia repubblichina, che li qualificava come comuni “banditi”.
L’amnistia Togliatti del 22 giugno 1946 viene applicata dai giudici in maniera selettiva ed estensiva a beneficio dei fascisti e a scapito dei partigiani: a soli 8 giorni dalla sua emanazione ne godono 7.106 fascisti e soli 153 partigiani. Cadevano nel vuoto le lettere che dal carcere molti garibaldini spedivano al compagno guardasigilli (su questo nodo cruciale della storia italiana si veda M. Franzinelli, L’amnistia Togliatti – 1946. Colpo di spugna sui crimini fascisti, Feltrinelli 2016).
L’offensiva giudiziaria contro gli ex partigiani e comunisti si fa ancora più violenta dopo l’attentato a Togliatti del 14 luglio 1948 e con l’egemonia politica democristiana, senza calare almeno fino a tutta la metà degli anni ’50. Il giurista Giuliano Vassalli, nel 1952, rileva che si allestiscono processi penali per fatti tipicamente bellici che «vengono invece rubricati come odiosi delitti comuni, mentre fatti analoghi commessi dai collaborazionisti sono stati quanto meno amnistiati da oltre cinque anni».
Si arriva a trattamenti estremi e sconcertanti verso i partigiani accusati che, resi noti all’opinione pubblica, non solo non suscitano scandalo e indignazione, ma alimentano la subdola e longeva vulgata del “sangue dei vinti”. Uno di questi casi è quello del maresciallo dei carabinieri di Castelfranco Emilia Silvestro Cau, che indaga sull’uccisione di spie e collaborazionisti fascisti; i “suoi prigionieri” sono sistematicamente torturati e costretti – una volta estorta la confessione – a scavare per riesumare le salme degli uccisi sotto gli insulti dei parenti di questi ultimi e i flash dei fotografi. Querelato per le reiterate violenze contro ex partigiani, Cau – difeso da Scelba – viene assolto nel 1955 e assunto poi al centro sbarchi statunitense di Livorno.
La magistratura militare, in accordo coi governi centristi dell’epoca, non solo punisce gli ex resistenti e “premia” i fascisti, ma si macchia anche dell’occultamento di centinaia di fascicoli a carico di nazifascisti relativi a omicidi di partigiani ed eccidi di civili: prima insabbiati dalla Procura generale militare di Roma e poi “archiviati provvisoriamente” (reato grave) dal procuratore Santacroce nel 1960, verranno casualmente riscoperti nel 1994 nell’“armadio della vergogna”.
Sono relativamente pochi i casi di partigiani assolti, come capitò ai membri della formazione garibaldina di Sante Danesin nel 1953 grazie all’abile difesa degli avvocati Lelio Basso e Carlo Smuraglia.
Alcuni impianti difensivi, tuttavia, si rivelano dei veri e propri boomerang: cercando di ottenere l’attenuazione delle pene, molti avvocati difensori dei partigiani – tra cui Umberto Terracini – chiedono per i loro assistiti la seminfermità mentale, così dopo un periodo carcerario ridotto venivano internati negli Ospedali psichiatrici giudiziari dai tre ai cinque anni. Peccato che indulti ed amnistie non valgano per tali reclusioni, al punto che un internato dichiarerà: «Fossi stato all’ergastolo, sarei libero. Invece ho avuto la seminfermità, e sto qui dentro».
È quello di Aversa l’ospedale psichiatrico al centro dell’Odissea partigiana: Franzinelli e Graziano hanno potuto ricostruire le storie di sette internati, ma il loro lavoro è stato reso possibile dal materiale conservato da un personaggio chiave, in queste vicende: Angelo Javazzi, segretario della sezione del PCI di Aversa e “angelo” dei “pazzi della libertà” che dal 1954 incomincia ad occuparsi di loro, mediando col direttore del manicomio, tenendo contatti epistolari con loro, i loro famigliari e i Comitati di Solidarietà democratica (spesso lontani, al nord), fornendo agli internati libri e giornali, inoltrando richieste di grazia presso i ministeri e i tribunali e informando i deputati comunisti di tale allucinante situazione, alleviando insomma un isolamento che avrebbe finito per logorare davvero (e in alcuni casi avvenne comunque) il loro equilibrio mentale.
Gli stessi autori del volume sottolineano che il loro è un lavoro esplorativo: molti altri archivi di Ospedali psichiatrici giudiziari andrebbero studiati prima del loro completo smantellamento, così da sviluppare una pagina della nostra storia troppo a lungo ignorata e declassata a cronaca familiare. Così da poter dare un nuovo colpo alla monumentale beffa del “sangue dei vinti”, ché i vinti nel dopoguerra furono spesso i liberatori della Resistenza, non certo quelli che – come la SS italiana Luciano Luberti – poterono morire nei loro letti liberi, vecchi e ancora arrogantemente orgogliosi del loro passato nazifascista.
Pubblicato venerdì 23 Settembre 2016
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