Per celebrare l’8 Marzo, Giornata internazionale della donna, abbiamo voluto fortemente intervistare la scrittrice Melania Gaia Mazzucco, già vincitrice nel 2003 del Premio Strega con il romanzo “Vita”. Questa volta, dopo il successo di “L’architettrice”, sempre per Einaudi editore ha dato alle stampe il romanzo storico intitolato “Silenzio, Le sette vite di Diana Karenne”. Nel nuovo libro, l’autrice racconta l’esistenza incredibile di una delle dive degli anni d’oro del cinema muto italiano. Una storia preziosa non soltanto per la sua importanza nell’arte cinematografica, ma anche per tutte le peripezie che Diana visse nella vita, attraversata da numerosi viaggi, e dalla prima e la seconda guerra mondiale. Proprio in quest’ultima si perdono definitivamente le sue tracce, la si dà per morta nonostante allora fosse ancora viva. Una storia che poteva finire quindi nell’oblio, ma che Mazzucco ci restituisce con questo splendido romanzo, frutto di una attenta ricerca storica, corredato da una ricca selezione fotografica.

Diana Karenne nel 1917

Come ha conosciuto la figura di Diana è perché ha deciso di scrivere il libro?

Ho incontrato Diana Karenne fra il 1988 e il 1990, quando frequentavo il Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma e, avendo accesso alla Cineteca Nazionale, ho visionato alla moviola centinaia di film del cinema muto. Mi affascinò l’attrice, ma ancor più la scoperta che era stata scrittrice e regista – una delle prime della storia. Ed era straniera, a quel tempo si credeva fosse polacca. Bellissima e seducente femme fatale, come altre dive, e anche colta, misteriosa, indipendente, imprevedibile. Ho subito voluto saperne di più – tuttavia allora c’erano davvero poche notizie su di lei, e peraltro neppure vere.

L’attrice Diana Karenne nel 1916

Quanti anni è durata la sua ricerca e che fonti ha utilizzato?

Il mio primo scritto su di lei risale al 2002. Ma a quel tempo usai solo le poche fonti stampa e i rari film sopravvissuti della sua abbondante filmografia. In seguito ho iniziato a esplorare le riviste cinematografiche a lei contemporanee (italiane, francesi, tedesche, spagnole, inglesi), che si sono rivelate una miniera di informazioni (pur se spesso fuorvianti) sulla sua figura e sulla sua produzione (anche dei film perduti). Ho anche iniziato a collezionare cartoline, e raccogliere cimeli. Nel frattempo, grazie ai miei libri Lei così amata, Vita, La lunga attesa dell’angelo, Jacomo Tintoretto & i suoi figli e L’architettrice, ho imparato a muovermi in archivio e a lavorare sulle fonti di prima mano. Così ho cercato Diana negli archivi italiani, francesi, tedeschi, ucraini, americani, svizzeri. Archivi di stato, cittadini e municipali, ma anche fondi privati donati a università e biblioteche; gli scritti del compagno della sua maturità, il poeta Nikolaj Otzup, mai tradotti in italiano ma ricchi di notizie sulla sua infanzia, e archivi eterogenei, come quello dell’Opfra (profughi e rifugiati), archivi diplomatici, della Croce Rossa… Roma, Torino, Milano, Bergamo, Rieti, Bolzano, Berlino, Parigi, Caen, New York, Kiev, Basilea, Losanna: ho inseguito le sue tracce ovunque è stato possibile. Una ricerca appassionante, durata, ovviamente, decenni. Ma sono consapevole che altro, soprattutto in Russia, può ancora essere trovato.

Un disegno di Diana Karenne, “Désir” del 1918

Nel libro racconta le sue molteplici vite, ma chi era davvero Diana Karenne?

Credo che la sua caratteristica più essenziale sia la metamorfosi – e non solo perché è stata un’attrice. Otzup la paragona a una farfalla, e mi pare appropriato. Sfuggente, sempre in movimento. Dina/Diana è stata davvero molte cose. Una ragazza madre, una musicista povera, la moglie inquieta di un avvocato, una geniale scrittrice, la compagna fatale di uomini che l’hanno amata fino alla morte e oltre, la regista arrogante, la peccatrice Maddalena, la diva in pelliccia, la benefattrice dei pittori maledetti, la musa, Beatrice, la santa, l’ignota. Raccontando storie, mistificando, inventando ogni volta un personaggio e una vita. Ma essendo sempre, in ogni metamorfosi, e qualunque nome e maschera indossasse, autentica e vera.

Diana, anche mentre si trova in Italia, riuscì a nascondere la sua identità ebraica, tuttavia, dal 1938 in avanti, come visse la persecuzione dei suoi amici ebrei?

Fin dal 1913 Dina Rabinòvitch (non ancora Diana Karenne) era riuscita a eliminare dal suo passaporto (che recava il cognome russo Belokorski) ogni riferimento alla sua origine ebraica. Tuttavia, a differenza che nell’Impero zarista, in Italia non aveva motivo di occultarla, e così in un autoritratto ad acquerello del 1918 si raffigurò con la menorah. In seguito, nei suoi anni parigini e berlinesi (1921-35), frequentò soprattutto ebrei russi e tedeschi (scrittori, produttori, pittori, attori). Il fratello Gregor Rabinòvitch, produttore cinematografico, era del resto un esponente di rilievo della comunità di ebrei russi espatriati dopo la Rivoluzione d’Ottobre (e fu vittima dell’arianizzazione e poi di persecuzioni antisemite, e nel 1941 dovette fuggire negli Stati Uniti). Al momento, nessun documento rivela quali fossero i sentimenti di Diana e la sua posizione di fronte al nazismo e alle leggi razziali. La sua situazione era complessa, e contraddittoria. In Italia, si era legata all’ambiente nazionalista, che nel primo dopoguerra divenne fascista: nel Ventennio, l’amante (un marchese aristocratico), e alcuni suoi amici (anche cineasti come Carmine Gallone), divennero esponenti del regime. In Germania, invece, i suoi amici e collaboratori erano socialisti e radicali, quasi tutti ebrei che dovettero espatriare all’avvento del Terzo Reich (quanti non vi riuscirono, finirono nei campi di sterminio). Lei pure lasciò Berlino, ma in Germania continuò ad andare in vacanza. In Francia fu denunciata come spia sovietica, con grande stupore degli stessi servizi segreti, che la consideravano antibolscevica. Quanto agli scrittori russi emigrati amici del suo compagno Otzup, negli anni Trenta finirono per diventare sostenitori di Mussolini e poi di Hitler.

Nikolai Otzup

E lo resteranno anche in seguito?

Il paradosso è che Nikolaj Otzup, schedato come anticomunista (benché pure lui sospettato di essere una spia sovietica), nel 1940 finì in uno dei campi di concentramento di Mussolini, come apolide con passaporto Nansen ma, sospetto “ebreo straniero”, dovette produrre dei falsi documenti che attestavano la sua appartenenza alla razza ariana per salvarsi. Diana invece, benché pure lei apolide con passaporto Nansen, riuscì a scampare al domicilio coatto e a nascondersi sul lago Maggiore. Ma doveva essere terrorizzata. Era sola, straniera, una senza patria sperduta nella tempesta della Seconda guerra mondiale. Soltanto le suore e un prete le furono vicini. Si avvicinò al cattolicesimo, e nel 1945 si convertì. Ma neppure questo passo fu definitivo. Aveva fede e credeva in Dio, indubbiamente, ma non nelle religioni.

(Archivio fotografico Anpi nazionale)

Durante il secondo conflitto mondiale, in Italia, Diana, per salvare uomini, donne e bambini di Verbania (dove già nel giugno 1944 erano stati imprigionati, a Villa Caramora, 43 partigiani, poi trucidati a Fondotoce), venne soprannominata “la santa russa”. Può raccontarci cosa avvenne?

Diana Karenne, che ormai si faceva chiamare Nadezda Belocorsca, lasciò Milano dopo i bombardamenti del 1942 e si rifugiò a Intra, sul lago Maggiore. Conduceva un’esistenza riservata. Diceva di essere scultrice. Secondo quanto raccontò a Nikolaj Otzup, che la ritrovò nel 1946, lavorò come infermiera volontaria in un ospedale militare italiano. Lì si prese cura dei feriti – tutti, qualunque divisa indossassero, e anche se partigiani. Non si unì alla Resistenza organizzata (molto forte nella zona, basti pensare alla vicinanza della Valgrande e della Repubblica partigiana dell’Ossola), ma suscitò ammirazione per il suo altruismo e il suo coraggio. Durante i rastrellamenti del 1944 si sarebbe offerta in ostaggio per salvare alcuni contadini della montagna presi prigionieri dai nazisti. Sarebbe stata torturata fin quasi alla morte, ma il comandante delle SS decise poi di risparmiarla. Trascorse in ospedale il 1945 e per questo la gente del popolo la chiamava “la santa russa”. I documenti (al momento) non confermano questa versione. Alcuni tenui indizi, però, non permettono neppure di escluderla.

Karenne Pierrot, 1917

Grazie alla sua ricerca, pubblicata nel libro, lei riporta una grande scoperta storica: ovvero che Diana non era morta il 14 ottobre 1940 ad Aachen (Aquisgrana), per le lesioni riportate dopo un bombardamento degli Alleati, avvenuto mesi prima.

Ogni volta che scrivo un libro su persone realmente esistite – siano esse mio nonno (uno sconosciuto qualunque), o il pittore Jacomo Tintoretto (un genio universale), il mio primo dovere è la verifica delle fonti. Cerco sempre di capire chi ha detto cosa, quando, perché, e se l’affermazione trova riscontro. In tutti i casi, mi sono resa conto che questo semplice lavoro non era stato fatto. A volte i documenti erano a portata di tutti, ordinatamente custoditi negli archivi – e si doveva solo cercarli. Altre volte invece era quasi impossibile orientarsi. Nel caso di Diana Karenne, per prima cosa ho cercato negli archivi di Aachen documenti che riportassero la notizia della sua morte. Quando non li ho trovati, ho pensato che forse dovevo cercarla sotto un altro nome. Ma nessuna donna della sua età era morta in quei giorni e in quel luogo a seguito di un bombardamento. Anzi, il bombardamento stesso non vi era mai stato. Ho cercato poi di risalire alla fonte della falsa notizia, ma nemmeno questa si poteva reperire.

La scrittrice Melania Mazzucco (Imagoeconomica, Sara Minelli)

Tuttavia nel libro riporta come importanti storici abbiano riportato la notizia come vera, e come le fonti occidentali non abbiano mai messo in discussione la notizia della sua morte, nonostante fosse falsa. Perché secondo lei, in tutti questi anni nessuno ha indagato riguardo la sua morte, da lei giustamente definita una “morte fantasma”?

Penso che in tutti questi anni nessuno abbia cercato di verificare perché è più semplice accettare “l’auctoritas”. Se uno studioso importante dà una notizia, allora essa viene considerata vera. E la notizia si propala di anno in anno, senza che nessuno la discuta più. Quello di Diana Karenne è un caso emblematico – che può insegnarci molto sul metodo e sulla costruzione della verità.

Andrea Vitello, storico e scrittore