Il cielo in una stanza. Abbracciare tutto il giorno con lo sguardo tutto quanto si può e si vuole vedere attorno a sé: la bellezza, la meraviglia, il sogno. Aprire gli occhi e svegliarsi accarezzando quanto di più incredibile l’arte contemporanea stia producendo attorno a te. Immergersi totalmente e perennemente nelle forme e nei colori che più desideri, che intensamente ami, nelle loro sfumature e nei loro odori, giorno e notte. Circondarsi per tutta la vita, per quanto ci è concesso di vivere, solo di ciò che si ama e che si desidera possedere. Per sempre.
Quando Joë Bousquet muore il 28 settembre del 1950 nella sua casa (meglio dire: nella sua stanza immersa nella più totale penombra, la chambre aux volets clos, la “camera dalle imposte chiuse”), al primo piano di un bel palazzo al 53 di Rue de Verdun, nel centro storico di Carcassone, ha solo 53 anni. Pochi, forse, ma lo scorrere del tempo è stato, per lui, sia lentissimo che fulmineo. Una vita “immobilmente avventurosa” e di certo unica perché singolarmente divisa a metà. Gravemente ferito il 27 maggio 1918 nella battaglia di Vailly, compromessa per sempre la sua colonna vertebrale e immobile la parte inferiore del suo corpo, trascorre i 32 anni che seguono nella camera dalle imposte sempre chiuse trasformandola, grazie alla sua energia intellettiva e alla grande capacità attrattiva e carismatica che esercita su un folto gruppo di artisti e intellettuali europei, in uno dei luoghi più aperti e moderni di tutto il Novecento.
Joë Bousquet. Intellettuale poliedrico e curiosissimo, nelle prime opere si firmava con lo pseudonimo Jean-Flour Montestruc, tanto fondamentale per la cultura europea della prima metà del Novecento (tra le corrispondenze e le amicizie più importanti quelle con Paul Éluard, Pablo Picasso, Max Ernst, Jean Paulhan, Simone Weil), quanto fino a ora quasi sconosciuto in Italia. Inesplorato e unico, un uomo che ha racchiuso in sé, in una fissità del corpo che genera e costantemente nutre la vertigine del pensiero, un intero universo di ansie, passioni, tragedie e paure ma anche sogni, stimoli, voli onirici condivisi con il meglio degli intellettuali europei e che quindi va letto, studiato, assorbito come merita.
È così che Mimesis sceglie – le pubblicazioni sono tutte ravvicinate – dal 2021 a oggi di sondarne l’animo dapprima con la pubblicazione di due inediti, Isel, con introduzione di Antonio Di Gennaro e traduzione di Arlindo Hank Toska, e Tradotto dal silenzio, a cura di Adriano Marchetti, fortemente simbolici dello stile del poeta: onirico, febbrile, quasi estremo. Una prosa lirica studiata e cesellata in ogni sillaba e respiro, opera d’arte di suono e pause, studiata e pesata a fondo, perennemente. Opere d’arte create come tali, per essere lette come tali, metafora continua tra l’essere e il voler essere dell’autore e la capacità di interpretazione dello sguardo altrui, del lettore. Bousquet è non solo fine prosatore di una cospicua produzione narrativa, ma intellettuale presente al suo tempo, motore d’azione tra i più potenti del pensiero surrealista, fondatore nel 1928, con François-Paul Alibert, Ferdinand Alquié, Claude-Louis Estève e René Nelli, della rivista Chantiers.
Ora, grazie a L’ombra di ciò che unisce, (il titolo emerge da una frase di Bousquet a Magritte, “Siamo amici e abbiamo scoperto che questa amicizia era solo l’ombra di ciò che unisce le nostre vite” in una delle lettere che compongono questo epistolario), ne conosciamo più a fondo l’uomo, i sogni e soprattutto i desideri. Insaziabile la sua fame di bellezza, quasi ingordo il suo desiderio di possedere quante più opere d’arte possano contenere le pareti attorno a lui, il grande amore è il Surrealismo, ecco che narrarlo nel particolare dell’amore per l’arte, scegliere una strada d’accesso precisa che conduca per mano il lettore alla profondità della sua anima, diventa non solo opportuno ma efficace e vincente.
La delicata precisione con la quale Arlindo Hank Toska, che firma la cura del volume ringraziando, in calce alla prefazione, Sylviane Tulimiero, oltre ai già citati Di Gennaro e Marchetti, per i “suggerimenti e l’impagabile supporto”, tratteggia l’amore che lega Bousquet all’arte, perché di vero e appassionato amore si tratta, grazie alle parole indirizzate al fraterno amico Max Ernst: “Max, la gioia di vivere è una pittura stupefacente, inaudita. È per me la fine della solitudine, dell’impotenza, il mio legame con la vita in una visione totale di ciò che mi appariva sotto l’angolo deformante dell’amore”.
Un amore assoluto che va costantemente appagato: con il passare degli anni e il continuo fluire di amici che frequentano la sua bella e oscura stanza – se non può muoversi autonomamente, o non vuole, nel mondo, è allora il mondo che arriva a lui, calamita di attenzioni e affetti – essa stessa diventa uno dei “musei” privati più interessanti di Francia, custodendo il meglio del Surrealismo e della letteratura grazie alla sua innata capacità di intercettare nuovi talenti e metterli in dialogo tra di loro, generandone una crescita e un appagamento continuo.
Immobile nel letto-scrivania, con a portata di mano centinaia di libri, giornali, quaderni, il poeta poteva, alzando gli occhi, spaziare su un universo artistico meravigliosamente straordinario – struggenti ma assolutamente da vedere le poche fotografie che si trovano in rete e dalle quali si intravedono capolavori assoluti appesi in ogni dove – generato dalla sua insaziabile sete di bellezza. “In generale, la pittura gioca un ruolo centrale all’interno dell’itinerario biografico di Bousquet. Le pareti della chambre aux volets clos di Carcassonne erano ricoperte da dipinti surrealisti di Arp, Bellmer, Brauner, Chagall, Dalì, Derain, Dubuffet, Ernst, Fautrier, Kandinskij, Klee, Lhote, Magritte, Malkine, Masson, Paalen, Picabia, Tanguy, e altri ancora, formando un’importante e imponente collezione-costellazione, oggi purtroppo dispersa, che incantava i suoi sogni e le sue giornate, dedicate per lo più alla scrittura onirica della ferita e dell’amore desiderato e assente”: così Arlindo Hank Toska, sempre nella prefazione.
Naturale l’incontro tra i due quando René Magritte arriva a Carcassone, scappato dall’invasione tedesca del Belgio e dell’Olanda del 1940 e la nascita di un’amicizia sincera nutrita negli anni da una folta corrispondenza, iniziata nel luglio del 1946: “Carissimo Magritte, finalmente ho avuto il tuo indirizzo”. E poi, ancora: “Ma ora, Magritte! Tu nutri i miei sogni inviandomi le tue meravigliose collezioni. Manifesto pienamente la mia approvazione per le riproduzioni a colori, per i poster, ma i miei occhi, i miei occhi?” e ancora, più specifico riguardo ai dipinti che desidera “Per questo volevo il tuo Île au Trésor. Occasione mancata! Ora sto cercando i tuoi gufi, nascita del giorno. Magritte, ti prego, scrivimi. Dimmi a che prezzo mi cederesti le tue tele più recenti, su quali condizioni di pagamento potrei contare”. Affettuosamente struggenti quindi, in alcuni passaggi, le richieste di opere ma anche le dichiarazioni di affetto: “Sei venuto a Carcassonne. Era ieri. Non sei mai ripartito. E il ricordo della tua presenza ha assunto l’enfasi leggendaria di cui si aveva bisogno”.
Un’amicizia intellettuale e umana che sopravvive in queste lettere, vergate dal poeta con una calligrafia minuta e tonda, le vediamo in foto nell’appendice al volume insieme ad alcuni dei dipinti di Magritte citati da Bousquet nelle lettere e ai ritratti che gli fecero Hans Bellmer e Jean Dubuffet, e che quasi leggiamo con un certo pudore, quasi da estranei che, non invitati alla festa, sorridono imbarazzati. L’Ombra di ciò che unisce: il segno intangibile creato dal corpo reale che lo genera, l’ombra, assume un significato simbolico altrettanto forte se unisce pur nella sua fluidità. L’unione di intenti, diremmo di anime, traspare fin dalle prime parole della lettera che Magritte invia in risposta all’amico da Jette-Bruxelles, 3 agosto 1946: “Mio carissimo Bousquet, Ti ho scritto più volte da quando ho lasciato Carcassonne, avrai forse ricevuto solo poche lettere? A volte, ho avuto vaghe notizie da te e sono estasiato della tua lettera. Attendo con ansia i libri che stai annunciando. Ho ripensato spesso al sentimento che un tempo ci ha portati su questo nuovo cammino in cui sono ora impegnato: sapevi che, quando si mangia un frutto, una specie di sole entra nel nostro corpo. (…) Questa antica serenità non appare più. È più celata, più essenziale e deve essere in grado di resistere alla prova del pieno sole”.
Una nuova vita dopo le tenebre della guerra era forse possibile? Se lo augurava Magritte, descrivendo all’amico un nuovo cambio di passo nella sua pittura “una rivoluzione sentimentale anzitutto, che pretende di sostituire l’inquietudine con la gioia, il sole”. Meno convinto Bousquet che afferma: “Fuori dal nero, la luce non è: nel nero l’ombra è bagliore. Sto parlando del nero del nero, il nero cava e il nero sorgente, che attraversa la sua impenetrabilità in forma di giglio, che sboccia nei tuoi colori…”. Incontriamo noi stessi nell’incontrare Joë Bousquet. Nella forza della sua parola pura si trova tutta la tragedia dell’animo umano che non si riconosce nella fragilità e nella fissità innaturale del corpo che lo ospita, che riconosce “la dualità fisica dell’individuo e il “battito” di un io perennemente in lotta contro se stesso”. Così è solo nell’arte che tutto si compie, che la lotta può per un momento tacere: “Sei un artista se capisci che la vita non ti deve nulla/e che tu le devi tutto ciò che sei”. (J. Bousquet, Journal dirigé)
Elisabetta Dellavalle, giornalista, collabora anche con la Stampa
Pubblicato domenica 31 Luglio 2022
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