Sono trascorsi sette anni da quando Annarita è rimasta vedova. Ora ha trovato da sposare un altro uomo e si deve trasferire da lui, che fa il guardiano del faro sull’isola di Pianosa, un poco a sud-ovest dell’Elba. La guerra infuria ormai da tre anni buoni e la gente non può che sopravvivere rassegnata; lo fanno quasi tutti, ma la figlia Iole non ci sta. Lei ha solo sedici anni e col suo aspetto disinvolto e il sorriso sfrontato è l’emblema della voglia di vivere. Perciò, quando Annarita parte per Pianosa, lei decide di restare all’Elba, da sola, nella casa di via del Paradiso, dov’è cresciuta coi genitori e con le due sorelle gemelle più grandi di lei. Ora le sorelle sono partite per il continente, sono andate a lavorare a servizio perché quello sembrava l’avvenire migliore per loro; ma Tecla e Giovanna non sapevano ancora che “stare a servizio è un sacrificio o peggio, una schiavitù e un vero affronto” e scoprono presto l’assurda logica della sottomissione ai padroni: “Viviamo nelle case dei ricchi e ci alziamo che è ancora notte a lucidare il pavimento che abbiamo già lucidato la sera prima”.
È Iole “la figlia del ferro” di cui Paola Cereda narra l’eroica e tragica storia (Giulio Perrone editore, pp. 238, €16); sono suoi i pensieri e le azioni di cui seguiamo la parabola negli undici fatidici mesi che dall’armistizio portano allo sbarco sull’Elba nella notte tra il 16 e il 17 giugno 1944. Cereda costruisce un romanzo crudo e bellissimo risvegliando con la fantasia la storia vera di Olimpia Mibelli Ferrini che, a ventun anni, sacrificò se stessa per salvare l’onore di tante donne di Portoferraio.
Iole, come Olimpia, è una lavandaia; la sua lisciva toglie il sudiciume dalle braghe dei militari e, quando riesce, lava pure via la sporcizia dagli animi guasti; “a esse’ poveri, il dovere più grande è il decoro”. Suo padre si chiamava Umberto ed era un uomo dell’isola, impegnato nel sindacato e anarchico fino alla punta dei piedi. A Iole aveva fatto dono del sorriso ostinato e di uno sguardo mai ovvio sulle cose del mondo. Diceva che gli esseri umani possono commettere due grandi errori: “smettere di farsi delle buone domande” e “abituarsi alle ingiustizie al punto da chiamarle semplicemente disgrazie”. E di certo una disgrazia non era stato il pestaggio fascista da cui non si era più rialzato; era il 1936, per le vie di Portoferraio c’era stato un corteo inneggiante al duce e alle conquiste etiopiche, e di tutte quelle buffonate Umberto non ne voleva sapere: così le camicie nere gliel’avevano fatta pagare. Del padre a Iole non era rimasto che il fazzoletto, quello che lui s’era infilato nella giacca il giorno del matrimonio, lo stesso che Iole aveva adoperato per salutare il duce assieme alle altre piccole italiane e che più tardi usa per tamponare il sangue che sale dalle ferite di Umberto.
Così, dopo l’8 settembre, Iole è lì da sola, in via del Paradiso, con l’unica compagnia delle vicine di casa: Lia, la materassaia che attende il ritorno del marito Pietro, e Sestilia, la camiciaia, che ama stare alla finestra per spettegolare su chi entra e chi esce dalla porta di Iole. Un po’ di veleno si sparge. Qualcuno dice che la ragazza è troppo disinvolta coi maschi, che dal suo letto già sono passati un fante e un mangia kartoffeln, che insomma “il modo sfacciato con cui Iole invitava all’allegria” non può portare a nulla di buono. Ma quello è forse l’unico modo sano di vivere: “Iole era a suo agio dentro i peccati che chiamava semplicemente giorni. Azioni. Ore”.
L’autunno ’43 diventa un vero e proprio inferno con gli aerei tedeschi che iniziano a sorvolare i cieli dell’Elba. Quando scendono le bombe, la gente cerca la salvezza sottoterra, in quei rifugi che “sono luoghi raccolti e insieme spudorati, poco adatti alle confidenze tra estranei”. Ma adatti invece a far sbocciare le passioni. Così nasce quella tra Iole e Mario, proprio durante il devastante bombardamento del 16 settembre, quando i due si baciano nel buio del nascondiglio, resi leggeri da una voglia di vivere più straordinaria della guerra stessa.
Tuttavia l’amore non basta, perché Iole è una donna curiosa, determinata, libera da tutto e da tutti. E anche più coraggiosa del giovane Mario che, più tardi, quando entrambi sfollano a Campo, trova continue scuse per non riaccompagnarla a Portoferraio, dove Iole vuole riprendere possesso della sua casa. Iole è sorridente e testarda; irriducibile e resistente come il ferro, tanto che Mario arriva a odiare “quel suo sorriso, il modo con il quale si allargava sulla faccia, l’ostinazione che metteva nell’esistere persino sotto le bombe”. È tanto indipendente che è difficile starle vicino. Così Iole torna da sola, ancora una volta, salendo sul lurido carretto del robivecchi.
Ma l’esistenza della ragazza s’intreccerà ancora con quella di Mario e con quella dell’isola intera. Nel frattempo le gemelle tornano all’Elba e sfollano a casa dello zio. Tecla è addirittura una miracolata poiché è una delle poche superstiti del piroscafo Andrea Sgarallino, silurato dagli inglesi il 22 settembre 1943 (con più di trecento vittime), poiché, nonostante l’imbarcazione fosse stata nuovamente adibita al trasporto passeggeri, ancora manteneva la livrea militare mimetica della marina regia.
Frattanto i mesi scorrono e l’anno nuovo, il 1944, porta la liberazione dell’Elba. Liberazione? No, forse quello è solo uno sbarco che, mentre libera, sporca l’isola con la foia animalesca della vittoria. Gli alleati arrivano verso la metà di giugno – è l’Operazione Brassard –, le manovre sono affidate ai francesi del Corps expéditionnaire français en Italie. Nello specifico lo sbarco è compiuto da una divisione di fanteria degaullista formata perlopiù da truppe senegalesi e marocchine. Tra loro c’è il giovane fuciliere Ibrah.
Iole e Ibrah: le loro vite sono destinate a incrociarsi. Quando lui si era arruolato – sorretto dalla promessa di una pensione e dei privilegi di un documento francese – tutto il suo clan aveva festeggiato, “perché il prestigio di essere tirailleur era superiore al pericolo”. Ma lui, sotto la maschera del coraggio, mantiene fin che può la coscienza delle proprie origini, appena slabbrata da una fosca malinconia. Suo fratello Ousmane muore sulla spiaggia di Fonza e lui chiude gli occhi cercando di conquistare il futuro. Per la sua maison, non per una patrie che non sarebbe mai stata veramente sua (quando poi sarà ora di festeggiare il trionfo alleato a Parigi, si procederà infatti allo “sbiancamento” delle truppe francesi).
A cacciare i tedeschi dall’isola ci mettono poco, un paio di giorni, ma la vittoria si volta in un tragico bagordo. I soldati africani si danno ai saccheggi e alle violenze, le razzie e gli stupri si moltiplicano. Così Iole oppone la propria Resistenza al nemico – sollecitata da quel Mario che non aveva saputo amarla come lei avrebbe desiderato – offrendosi in olocausto a uomini stranieri che altro non sanno fare, nel frangente della conquista, che ripetere ancestrali riti di appropriazione della terra e della carne altrui. Iole assorbe la loro violenza e intanto “piange e insieme ride perché sa che la disperazione, da sola, non basta per riuscire a sopravvivere”.
Non fu l’unica. Ma fu colei che si sacrificò per salvare l’onore di tante altre donne, che altrimenti sarebbero state ripudiate e poi cacciate dai loro mariti. E chissà quanti altri Ibrah hanno fatto quel che hanno fatto solo perché non hanno saputo sottrarsi all’oscena e sudicia forza del branco.
Paola Cereda, inserendosi perfettamente nel solco di tanti libri editi da Perrone, scrive un romanzo-donna che tutti gli uomini dovrebbero leggere perché qui, tra le pieghe di questa storia, si legge con spietata evidenza quanto possa essere nauseante il maschio in guerra, e quanto possa esserlo anche in pace. Iole, infatti, come l’eroina da cui trae spunto, non solo ha fatto la sua Resistenza in mezzo al sangue e alla sofferenza, ma ha pure dovuto rinunciare a tutti gli onori – e pure all’onorabilità – quando le celebrazioni dei vincitori avrebbero dovuto glorificarla. È quindi ora che “la figlia del ferro” reclami la sua parte di memoria, affinché davvero non si corra il rischio di scambiare le ingiustizie per semplici disgrazie.
Giacomo Verri, scrittore
Pubblicato domenica 24 Luglio 2022
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