Incontriamo il milanese Fabio Cremonesi, classe 1968, traduttore dell’anno 2017 per la giuria di qualità de «La Lettura». Dopo aver studiato Arte medievale, Cremonesi ha lavorato 15 anni in un’azienda, tra Italia e Spagna; è poi stato promotore editoriale, cioè venditore di libri ai librai, ed editore, fondando Gran Vía Edizioni, casa editrice di nuova letteratura principalmente di lingua spagnola. Traduce dall’inglese, dal tedesco, dallo spagnolo, e tra i suoi autori si trovano americani come James Leo Herlihy, il praghese Leo Perutz (La neve di san Pietro, Adelphi), l’argentina Mariana Enríquez (Le cose che abbiamo perso nel fuoco, Marsilio), lo spagnolo Juan Vilches (Ti regalo il mio regno, Imprimatur), l’austriaco Martin Pollack (Galizia, Keller editore) e la russo-tedesca Sasha Marianna Salzmann. Ma soprattutto, Cremonesi è oggi la voce italiana dell’autore statunitense di culto Kent Haruf, di cui ha tradotto cinque libri: la Trilogia della pianura, il postumo Le nostre anime di nottee Vincoli (tutti per NN editore). Pubblicato ora per la prima volta in Italia, Vincoli (1984), in libreria dallo scorso 5 novembre, è il romanzo d’esordio di Haruf: è un affondo nel passato di Holt, l’immaginaria cittadina del Colorado che ha fatto da scenario – e non solo – a tutti gli altri lavori dell’autore americano. Haruf è un romanziere che mi ha sempre fatto venire alla mente la figura del Narratore di Walter Benjamin, un essere in grado di assegnare alle proprie storie un “orientamento pratico”, di trasmettere alle pagine quel prezioso dono che è l’“utile” in senso benjaminiano: “tale utile può consistere una volta in una morale, un’altra in un’istruzione di carattere pratico, una terza in un proverbio o in una norma di vita: in ogni caso il narratore è persona di ‘consiglio’ per chi lo ascolta. […] Il ‘consiglio’ […] non è tanto la risposta a una domanda quanto la proposta relativa alla continuazione di una storia […]. Il consiglio, incorporato nel tessuto della vita vissuta, è saggezza”. Ecco, Kent Haruf è tutto questo, è il tentativo perfettamente riuscito di ritrovare una dimensione meno diretta, più leggera e diradata che conservi la fragile grazia dell’arte del raccontare storie. E di parlare, attraverso quelle storie, della vita così com’è davvero.
Conoscendo dunque la magia di questo scrittore statunitense, i lineamenti grandi e semplici delle sue figure e i brividi che provoca la profondità morale del suo sguardo sul mondo, abbiamo deciso di porre a Fabio Cremonesi alcune domande.
Fabio Cremonesi, Kent Haruf e NN sono ormai un connubio indissolubile. Come sei arrivato a Kent Haruf? O, forse potremmo dire, come è avvenuto l’incontro tra Fabio Cremonesi, Kent Haruf e NN editore?
Come spesso accade nell’editoria indipendente, la storia del mio incontro con Kent Haruf è innanzitutto una storia di amicizia: un gruppo di amici decide di creare una nuova casa editrice. Mi viene chiesto di dare una mano, leggendo qualche libro che le agenzie stanno proponendo alla redazione. Dovete sapere che sono un lettore lentissimo, del tutto inadatto a fare questo genere di lavoro, che invece richiede, oltre a una certa sensibilità letteraria e commerciale, anche una grande rapidità, per evitare di scoprire un autore dopo che già è stato scoperto da qualche altro editore! Ma esistono anche delle eccezioni: inizio a leggere Benedizione e lo leggo praticamente in un giorno e una notte; mi convince tutto di quel romanzo: la trama, i personaggi, la scrittura, l’atmosfera. Chiamo l’editrice all’alba, anche lei l’ha divorato. Ci pare un miracolo che un libro di quel livello sia passato inosservato da tutti gli altri editori italiani, fatto sta che è fatta: l’editrice fa un’offerta, che viene accettata. Haruf è nostro. Da allora è un crescendo di riscontri: se ne innamorano i librai, piace ai critici, il nome di Haruf comincia a circolare tra i lettori. Tre anni e quattro romanzi dopo ci siamo: Le nostre anime di notte sarà primo in classifica!
Come si colloca Haruf nel quadro della letteratura americana? In sostanza: c’è un filone o una scuola letteraria alla quale ascriverlo?
Haruf è un paradosso: da una parte appartiene a pieno diritto a una grande tradizione di letteratura ‘extraurbana’ o addirittura ‘rurale’, che comprende Faulkner e Steinbeck, ma anche nomi più vicini a noi quali Cormac Mc Carthy o Nickolas Butler; d’altra parte però Haruf, sia per carattere, sia per scelte tematiche, è un autore molto appartato; leggendolo non si ha mai la sensazione di un autore che insegue le mode del momento e non a caso il successo è arrivato molto tardi nella sua vita.
Ormai hai tradotto cinque dei sei romanzi di Haruf, la Trilogia della Pianura, quel gioiello postumo che è Le nostre anime di notte, e ora Vincoli. Tutti si svolgono a Holt, cittadina immaginaria del Colorado, alcuni personaggi tornano in almeno due romanzi, altri compaiono in uno solo di essi. Ci puoi raccontare, di quest’ultimo,Vincoli, il fulcro della vicenda?
Si tratta della storia di una donna tra la fine dell’Ottocento, ai tempi dei pionieri e della colonizzazione del Colorado, e gli anni Settanta. Si tratta di una vicenda molto privata, ma al tempo stesso di una cavalcata attraverso la storia degli Stati Uniti nel Novecento, con un occhio di particolare attenzione all’evoluzione della condizione femminile. E ha persino una classica struttura noir. Insomma, mi pare ancora una volta, come accade sempre con Haruf, un libro che accontenterà parecchi palati.
Vincoli è il primo romanzo di Haruf ambientato a Holt. È una Holt diversa o simile a quella che tornerà nei romanzi successivi?
È il racconto di come Holt è arrivata a diventare quella che abbiamo conosciuto nella Trilogia e in Le nostre anime di notte. Nei suoi aspetti epici, ma anche nelle sue miserie umane. E naturalmente non manca un certo negozio di ferramenta, una certa HoltTavern. La Holt che accoglie e la Holt che respinge.
Nell’Haruf che abbiamo letto finora non ci sono catastrofi, astrusi malesseri esistenziali, tipici del Novecento letterario; c’è la vita semplice. È così anche in Vincoli?
Questa è in primo luogo la storia di una donna che fa dell’abnegazione la costante di una vita durissima. E la sua abnegazione è rivolta al padre e al fratello, ma anche all’arido appezzamento che ha costituito la ragione di vita del padre stesso. È pressoché impossibile in questo romanzo scindere la dimensione dell’attaccamento alla terra da quella del prendersi cura degli altri.
“Sobrietà francescana”, così hai definito la scrittura di Haruf, perché, nei testi finora tradotti lo stile è semplice ma esatto, non utilizza quasi neppure le più comuni figure retoriche. In Vincoli, al contrario, la cifra stilista è diversa…
Vincoli è peraltro un romanzo dalla scrittura molto ricca e articolata, che non lascia molto spazio all’immaginazione del lettore. Ma non dimentichiamoci che è l’opera prima di un autore la cui scrittura avrà un’evoluzione molto coerente e lineare in una certa direzione, quindi se anche dal punto di vista dello stile c’è già molto dell’Haruf che verrà negli anni successivi, la parabola che lo porterà fino all’estrema asciuttezza formale di Benedizione è solo al suo inizio. Va anche sottolineato che questo percorso evolutivo avverrà su un arco di tempo molto lungo: tra Vincoli e Benedizione ci sono ventinove anni durante i quali Haruf pubblicherà appena altri tre romanzi.
I personaggi di Haruf – tolti forse quelli di Le nostre anime di notte – parlano soprattutto attraverso i gesti. Hai in mente, per Vincoli, alcuni gesti, alcune situazioni simboliche che spiegano un’intera situazione senza quasi che i personaggi parlino?
Riallacciandomi anche alla domanda precedente, su questo aspetto c’è una grande continuità nella capacità di Haruf di creare situazioni cariche di significato, senza il bisogno di essere esplicito. Senza rivelare troppo della vicenda narrata, basti dire che in pratica una delle due o tre scene centrali del romanzo si risolve così: “E poi, mentre me ne stavo là a guardare dalla finestra, fece una cosa che non dimenticherò mai, una cosa che mi impedì di sfondare la finestra con un calcio e che, se ci pensi, ha cambiato tutto: sollevò una mano dal bracciolo della sedia a dondolo. Non fece altro”.
Come in Benedizione e, in parte, in Le nostre anime di notte, anche Vincoli è un romanzo che parla anche della fine, della morte: Edith Goodnough ha ottant’anni, giace in un letto d’ospedale e in fondo aspetta di morire. Come vede la fine Haruf? Qualcuno ha detto che, attraverso la tenerezza, Haruf riscatta il dolore; è così anche in Vincoli?
Mi fa molto piacere che tu mi abbia fatto questa domanda, a cui peraltro, sempre per non svelare troppo ai lettori, potrò rispondere solo in modo piuttosto reticente. Evidentemente la morte è uno dei temi centrali che attraversano tutta l’opera di Haruf. La peculiarità è che per lui la morte non è mai un momento, è sempre un processo più o meno lungo, più o meno sofferto, non è la negazione della vita, bensì uno dei momenti in cui la vita si articola. Questo in parte si spiega con un dato di natura strettamente biografica: per moltissimi anni Haruf è stato volontario in un hospice, il luogo dove i malati terminali vengono accompagnati nel processo del morire. In questo romanzo la tenerezza che riscatta il dolore del morire arriva fino alle sue più estreme conseguenze, è come un arco teso tra la prima pagina (“Edith Goodnough non vive più in campagna. Ormai sta in città, in ospedale, in quel letto bianco, con un ago infilato nel dorso della mano”) e l’epilogo, luminoso e drammatico come abbiamo imparato ad aspettarci da Haruf.
Giacomo Verri, scrittore
Pubblicato venerdì 16 Novembre 2018
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