Nel Mein Kampf, Hitler scriveva della boxe: “Nessun altro sport desta un grande spirito d’assalto, esige così fulminea decisione, rende forte e flessibile il corpo”. Con il nazismo il pugilato uscì dalle sue barriere di moralità e disciplina, entrando selvaggiamente a far parte di un messaggio di politica razziale che vedeva nella violenza e nei corpi aitanti dei pugili tedeschi, il suo eco più vigoroso. Sappiamo bene che il modus operandi dei gerarchi nazisti non si limitava ad entrare barbaramente in possesso dei corpi delle persone, disfacendosene come fossero sacchi della spazzatura e accatastandoli l’un l’altro nudi dopo averli uccisi. Si depredava l’anima annientando psicologicamente ogni tentativo di resistenza. Eppure tramite Mauro Garofalo, uno stralcio di anima che ha provato a resistere l’abbiamo vista nitidamente. Non bisogna per forza essere estimatori del pugilato come l’autore stesso o la sottoscritta per rendersi conto che tra quegli spalti ci siamo stati anche noi e questa è una storia che non dimenticheremo mai più.
Il lettore è trascinato in una sala gremita di soldati, il cui compito era quello di denigrare un pugile, lo stesso che aveva vinto il titolo poco prima ma che gli era stato sottratto perché non rientrava nei canoni ariani. L’avversario era già posizionato al suo angolo quando, rompendo un’aria colma di fumo, si presentò un uomo che non aveva niente a che vedere con quello che si stava aspettando. Johann Trollmann si fece spazio tra quelle corde con i capelli tinti di biondo, la riga da una parte, e il volto e l’addome completamente infarinato per risultare bianco. Non un bianco qualunque ma un perfetto ariano. Si piazzò al centro del ring e immobile iniziò ad accusare i colpi del suo avversario che, tra un diretto e un gancio, cadevano su quel ragazzo come spari di mitragliatrice. Le gambe ferme, Johann era conosciuto con il nome di Rukeli che per l’appunto significa ‘albero’ e come un albero rimase per ben 5 round, maestoso e fiero anche con la faccia ormai rossa perché intrisa di sangue. Poi esausto cadde al tappeto. Dopo una carriera pugilistica di tutto rispetto capì di non poter combattere con il suo avversario più grande costituito da migliaia di soldati armati e privi di coscienza. Eppure era lì, in piedi di fronte a loro, ad offrire il suo spettacolo per dire che non l’avrebbero mai avuto come volevano loro, perché non sono i tratti somatici a fare di qualcuno quel che è. E il punto era proprio questo: Rukeli era un sinti, uno zingaro arrivato dai campi di Hannover, riuscito a farsi strada e a guadagnarsi il rispetto di tutti per mezzo della sua abilità. Abbiamo conosciuto e amato Muhammed Ali. Trollmann per il modo in cui sapeva muoversi sul ring a ricordare una danza, l’aveva preceduto di trent’anni ed era bello, molto bello, così da impossessarsi sia delle palestre tedesche per la sua bravura che del cuore delle loro donne, che gli lanciavano rose durante i combattimenti, per il suo aspetto. Gli avevano dato un’altra possibilità, così avevano detto, dove aver palesemente dichiarato che non poteva avvalersi della vittoria precedente per dichiararsi campione, nonostante a tutti gli effetti lo fosse. Il pubblico tutto si era stretto attorno a lui in un commovente abbraccio immaginario, ma neanche loro avrebbero potuto sorreggerlo mentre coraggiosamente provocava quei soldati.
“Johann tirò fuori la collanina, portò la medaglia alla fronte. Il peso leggero, a infondere sicurezza. Il disperato tentativo di un marinaio che si affidi al quadrante di una bussola per uscire dalla tempesta. Tutto stava cambiando. Ma lui era lì.
Infilò i guantoni, non c’era più tempo per dubbi e tempi imperfetti. Zirzow era fuori, Markus a letto con l’influenza. La palestra era mezza vuota. Cominciò a frustare l’aria con la prima serie di diretti.
La palestra intorno, scomparsa.
I pensieri, scomparsi.
C’era solo il sacco, l’oscillazione, e la sequenza di colpi.
Era lì da 10 minuti quando si sentì toccare la spalla: «Ti devo parlare».
Erich Seeling di fronte a lui.
Mise a fuoco meglio. Le gocce di sudore di fronte agli occhi. Le ripulì col dorso del guantone. […]«È inutile che ti ostini a essere tedesco».
La diplomazia non era l’aria migliore di Erich, evidentemente.
Aveva provato a ribattere qualcosa ma Seeling lo aveva zittito: «Io e te siamo gli unici due non tedeschi in questo momento che combattono in questo sport». «Io sono tedesco…».
«Mi devi ascoltare». Lo sguardo di Seeling si era fatto all’improvviso più duro. Come quando, sul ring, lo vedevi che stava per tirarti la prossima bordata. Te ne accorgevi da un piccolissimo tic all’occhio sinistro. Lo vedevi, senza poterci fare niente: «Mi sono arrivate delle voci».
«Che voci?».
«Hitler vuole che le palestre di boxe della Germania sfornino pugili ariani».
«Che vuol dire?».
«Il Faustkampf». Seeling aveva usato la parola come se fosse una marca di brillantina.
Rukeli tossì. Così avrebbe preso freddo. Si passò l’asciugamano sul petto, se lo poggiò sulle spalle.
Seeling parve capire, annuì, non avevano troppo tempo. Nessuno di loro, in effetti, ne aveva più. Avrebbero dovuto decidere, e in fretta. Ognuno per sé: «È il nuovo stile di combattimento. Due pugili fermi al centro del ring che combattono, niente saltelli, solo pugni in faccia e sangue. Devi far vedere che sei maschio e non hai paura. Hitler ha in mente una categoria di sportivi ben precisa».
«Ma tu sei il campione e…».
«Io so soltanto che né tu né io facciamo parte di quella categoria, Trollmann, tutto qui. Hanno cominciato dagli ebrei, ma non si fermeranno»”.
Un lungo respiro. Si fa fatica a uscire da quella stanza. Sappiamo già che Hitler non si fermò agli ebrei e conosciamo tutti il destino degli zingari così come quello degli omosessuali o di chiunque altro mostrasse canoni fisici, politici o intellettuali differenti da quelli richiesti. Ci verrebbe voglia di afferrare quel ragazzo e scuoterlo, dirgli: “verranno a prenderti Johann, verranno ma tu resta in piedi. Sei forte, proteggi te stesso e la tua famiglia, qualunque cosa accada tu resta in piedi”. In fin dei conti la boxe fa da sfondo ma a delinearne i tratti é l’umanità delle persone che animano questa storia. L’ingiustizia di vedersi portare via ciò che si era guadagnato con il sudore e la propria determinazione. L’amore e la resilienza. La forza fisica di un pugile che può atterrarne un altro ma non può combattere contro gli spiriti del regime che camminano fermamente su gambe senza cuore. Con frasi brevi ma taglienti, l’autore riesce a creare un varco tra il testo e le nostre coscienze e quasi ti sembra di poterlo toccare quel ragazzo che oltre la corazza dei suoi muscoli ha paura come l’avrebbe avuta chiunque di noi. È questo il miracolo che prende vita in queste pagine, conosciamo la Storia ma con Johann ci sembra di viverla in tutte le sue nefaste conseguenze e sentiamo sulla nostra carne l’impossibilità di agire. Abbiamo gioito per le sue vittorie e abbiamo pianto quando scelse di allontanarsi dalla donna che amava e da sua figlia per proteggerle. Siamo rimasti aggrappati li, per un tempo che ci sembra esser stato infinito solo per vedere se almeno lui ce l’avrebbe fatta o meno, da uomo solo in mezzo ad un esercito.
Trollmann è realmente esistito e non è un personaggio inventato da Garofalo, nonostante poi si tratti di un romanzo perfettamente riuscito. Bisognava solo far uscire quella voce che si è cercato di mettere a tacere molti anni fa. Gli stessi anni in cui si rese indispensabile far credere che quella fosse una vera e propria missione dedita a salvare il mondo e ripulirlo, escludendo la libertà di essere ciò che si é che é l’unica vera salvezza. Ed è questo un enorme merito dell’autore. L’abbiamo sentita!
Margherita Frau, scrittrice
Pubblicato venerdì 7 Dicembre 2018
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