All’eccezionale figura di Matteotti è accaduto lo strano destino di essere sempre affrontata dalla fine, cioè a partire dal suo brutale assassinio per mano fascista. Sul delitto, infatti, c’è ormai una cospicua bibliografia e la cornice storica in cui si è consumato è chiara e consolidata. Rimane più spesso in ombra la personalità di Matteotti e il significato della sua vita politica. Certo, la morte di Matteotti si può considerare la conseguenza della vita stessa del deputato socialista: l’inflessibile moralità e esemplarità della sua condotta civile e politica non potevano essere tollerate da Mussolini e da qui la decisione di farla finita con un oppositore politico tra i più temibili (come sarà anche Gramsci, per esempio).
A cento anni dai fatti del giugno 1924, forse converrebbe ripescare un breve profilo che un uomo altrettanto straordinario del nostro Novecento come Piero Gobetti gli dedicò. Se per ragioni anagrafiche non si può parlare di vite parallele, per ragioni politiche lo è la loro morte: entrambi oppositori e vittime della dittatura. Piero Gobetti, morto nel 1926 in seguito a un pestaggio squadrista che aggraverà i suoi problemi cardiaci, scrisse nell’immediatezza del ritrovamento del corpo di Matteotti un suo ritratto per i tipi della sua casa editrice, appunto la Piero Gobetti Editore.
L’instant book di Gobetti ricostruisce la vita politica del deputato di Fratta Polesine e, per quanto brevemente, ne traccia alcuni stilemi morali e politici che in seguito verranno sviluppati dagli storici (si veda il recentissimo Mirko Grasso, L’oppositore. Matteotti e il fascismo, Carocci 2024), ne segnala la concretezza e la dottrina, la sua conoscenza delle lingue e dell’estero, la precisione delle argomentazioni e delle tesi e una politica realistica partita dal basso, dalle campagne, dalle cooperative e dalle leghe agrarie, insomma i luoghi dove si poteva formare una consapevole coscienza socialista.
Per Matteotti si trattava di educare i lavoratori a gestire la cosa pubblica, nei Consigli comunali e nelle amministrazioni provinciali. Gobetti al contempo sottolinea anche lo scarso interesse di Matteotti per la dottrina e la scolastica socialista, essendo decisamente più interessato all’impegno amministrativo e alla lotta politica concreta. Quello che nel polesano ammira il giovane Gobetti è la moralità senza compromessi, che si poteva comprendere solo all’interno del fallimento del giolittismo e della sua costante compromissione con i ceti più conservatori della Nazione, tentando di irretire i socialisti in un politica di connivenza e complicità, tutto ciò però inquinava ogni discorso riformista. In Matteotti, scrive infine Gobetti, non c’è nulla di tribunizio e di demagogico, la sua azione politica fu sempre esempio «di dignità, di resistenza, di intransigenza e di rigorismo». Infatti, al suo primo discorso da parlamentare, nel marzo nel 1920, aveva criticato con durezza Giolitti e la sua logica della maggioranza ogni costo, anteposta a un serio programma politico.
Gobetti apre il suo breve e intenso ritratto ricordando la coerenza di Matteotti già dalla sua opposizione alla guerra europea del 1914 e prima all’impresa libica di Giolitti: proprio questo bellicismo contrario all’umanità e alle idee socialiste portava Matteotti a criticare il Partito socialista non solo per la sua fiacca opposizione alla guerra di Libia, ma anche per la sua vacua retorica rivoluzionaria. La sua opposizione alla guerra, la sua avversione alla perversa retorica dannunziana gli faranno scontare l’astio di molti interventisti. Dopo il suo arruolamento, fu internato a Campo Inglese dove «tra la solitudine, il sospetto e le persecuzioni il carattere di Matteotti si rivela nella sua impassibilità. Assisteva alle consegue delle sue azioni come un buon logico».
Era il tipo d’uomo che univa profonde idealità a capacità concrete di analisi economiche e amministrative, lontano dal linguaggio “da sagra” che permeava anche certo socialismo italiano, linguaggio fatto di roboante oratoria e che sarà persino alimento del nascente fascismo italiano. La lingua di Matteotti era chiara e precisa, senza vanità stilistiche, senza retorica, così lontana da quella che sarà, invece, quella del suo maggior nemico, Mussolini. Nei suoi articoli sulla rivista Critica Sociale esprimeva i suoi pareri sui bilanci comunali e statali «con dati precisi, con numeri evidenti, preferibilmente senza polemiche, senza scandali».
La sincera ammirazione di Gobetti per Matteotti s’innalza nelle pagine dedicate alla sua formazione politica nel Polesine e, dopo aver fondato nel 1922 il Partito socialista unitario, all’antifascismo del deputato. Nemico irriducibile degli agrari e dello squadrismo fin dal suo sorgere, il 12 marzo 1921 Matteotti, già segretario della Camera del Lavoro ferrarese, dopo una riunione a Castelgulgliemo (Rovigo), viene aggredito e picchiato dai fascisti locali per essere poi abbandonato nei pressi di Lendinara, in aperta campagna.
Segretario del Partito Socialista Unitario, scriverà quell’atto d’accusa implacabile che è Un anno di dominazione fascista. Gobetti sostiene che quel pamphlet è «un atto d’accusa completo, fatto alla luce dei bilanci, e insieme una rivolta della coscienza morale». Consapevole di essere in pericolo fino a temere della propria vita, era – concludeva Gobetti – un «volontario della morte», morte dovuta alla sua rettitudine e alla sua «ferma coscienza morale», ritenuta da Matteotti la virtù preliminare e necessaria per contrastare il fascismo.
Certo, Matteotti è la sua morte e tuttavia è necessario ripercorrerne l’intera esistenza. In una sua recente biografia pubblicata nel 2011 da Longanesi, lo storico Giampaolo Romanato afferma nell’introduzione: «Del delitto si è scritto moltissimo […] non avrei potuto aggiungere nulla a quanto già sappiamo da memoriali, libri, inchieste giudiziarie, indagini giornalistiche, ricostruzione di storici […] oggetto di questo libro è la sua vita, che conoscevamo molto meno […] sapendo come visse, capiamo perché morì».
Pubblicato domenica 14 Aprile 2024
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