C’è un cadavere mezzo nascosto nella penombra rovente di una soffitta in cui riddano mosche golose di morte. La soffitta appartiene a una casa di proprietà del principe Morri della Valentina, cioè di una delle famiglia della nobiltà bolognese (nell’invenzione narrativa di Lucarelli) che nel travagliato ventennio fascista seguitò a godere di una certa stima incapace, tuttavia, di frenarne la decadenza economica. Il principe, infatti, ha affidato una di quelle case a un borsaro che vi esercita i propri mercati clandestini ammassando nelle stanze salami lunghi e nodosi come dita, e piccoli prosciutti e sacchetti di sale e zucchero. Un bendidio, insomma, da iniettare nel tessuto di una società lacera che si appresta a vivere quel frangente esaltante e drammatico di storia nazionale che dai giorni dell’entusiastico 25 luglio porta dritti agli sconvolgimenti dell’8 settembre.
Il cadavere è però senza testa. L’uomo è imponente e ben vestito ma manca dell’espressione del volto, di quella parte del corpo che più di tutte le altre veicola la nostra identità. Sul luogo del delitto c’è il commissario De Luca, il più abile detective della polizia giudiziaria, che inciampa, al buio, nel cadavere e ben presto scopre che dietro al corpo dell’uomo ruotano gli interessi di molte persone appartenenti a sfere che vanno dalle alte gerarchie fasciste agli ambienti del gioco d’azzardo e del traffico di cocaina. C’è infatti anche una valigetta o una borsa che contiene della droga e che all’inizio del libro sparisce per riaffiorare molte pagine più tardi; e dopo un po’ salta addirittura fuori, per una sorta di ironia raccapricciante e di macabra e geometrica complementarietà, una testa senza corpo.
Il commissario De Luca ha insomma il suo bel da fare; e deve muoversi coi piedi di piombo, visto che nelle pieghe dell’indagine sono coinvolti non un semplice borsaro col suo giovane aiutante ma anche importanti funzionari della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale e della Divisione Affari Generali e Riservati della Polizia: in quella storia di teste mancanti e di teste che assomigliano a quella di Cristo in croce, il commissario rischia di perdere anche la propria, tanto più che l’omicidio avviene a ridosso del 25 luglio, in quella manciata di giorni in cui i rapporti di forza sembrano sul punto di essere ribaltati e invece non lo sono e si assiste, nella filigrana romanzesca, a ciò che dovette davvero accadere in Italia nella torrida estate del Quarantatré, cioè all’inquieta e folle recrudescenza degli aspetti più marci e disastrosi del ventennio mussoliniano.
Ma De Luca è un detective a tutto tondo. La domenica 25 luglio la passa lungo il fiume a fare un bagno di sole con un gruppo di amici e con la fidanzata, Lorenza, che fa la farmacista. È una domenica quasi di febbre cerebrale per il commissario, che detesta il calore (come il Poirot di Evil Under the Sun) e che scansa con stizzoso fastidio le domande che gli vengono rivolte (“Cosa pensi che succederà?” in riferimento alla destituzione di Mussolini). Lui non ne pensa niente (“Me lo chiedete tutti, ma cosa ne so? Sono un poliziotto. Chiedilo ai tuoi, siete una famiglia di intellettuali, no?”; “Non mi occupo di politica, sono solo un poliziotto”), o forse cela una consapevolezza politica più profonda ma che subordina all’orgoglio intellettuale. In ogni caso le indagini proseguono per tutta l’estate tra false piste e trouvailles dal sapore profetico: a un certo punto, si scoprono due cadaveri carbonizzati (non posso dirvi a chi appartengono, ovviamente), ma la cosa bizzarra è che il commissario ha un dialogo con un giovane carabiniere il quale è giunto ai corpi perché sulle tracce di una particolare varietà di formiche, e ha da raccontare a De Luca una sorta di parabola entomologica che ha il sapore di una premonitrice allegoria storica:
«È per via delle formiche», disse.
«Le formiche?», chiese De Luca e il maresciallo cominciò ad annuire con orgoglio.
«Il ragazzino, qui, prima di fare il militare da noi, studiava biologia all’Università, un genietto, davvero, e siccome anch’io, nel mio piccolo, sarei un po’ un entomologo… digli un po’ del Monte delle Formiche, vai».
«Il Santuario di Santa Maria di Zena. – disse il carabinierino con un entusiasmo che gli cancellò di colpo rossore e timidezza. Indicò un punto oltre le dune lunari della valle, ma De Luca non lo seguì. – Ogni anno, all’inizio di settembre, i maschi di una particolare varietà di formiche alate vengono qui a riprodursi e a morire. Da tutta Europa, fanno il loro volo nuziale e poi vanno a morire al Santuario. Non si sa perché». […]
«Se avete modo di tornare qui verso l’8 di settembre li vedrete arrivare. Nugoli di formiche, nere come nuvole di un temporale, tutte qua, a morire».
Verrebbe da dire come nazisti e fascisti che dopo il fatidico 8 settembre ’43 compiono il loro ripugnante “volo nuziale” – si riproducono, in un certo senso – prima della lunga, estenuante e incattivita morte che si protrarrà per venti mesi.
Ma in fondo si tratta solo di una suggestione; a De Luca interessa poco, qui si ammicca al lettore che sorride all’immagine delle torme di camicie nere che corrono verso l’abisso della fine. Il commissario, invece, vuole saperne di più su quel giudeo senza testa e sull’albanese senza corpo, sulla borsa scomparsa, e ciò che più stuzzica l’interesse di chi legge è quel sottinteso contrasto tra l’urgenza e l’ossessione investigativa di De Luca e il disinteresse quasi generale che lo circonda: a chi, infatti, dovrebbero importare due cadaveri bizzarri in un contesto dove il ventennale regime di Mussolini sembra caduto e i morti si contano a centinaia tra chi perisce in guerra e chi finisce, da civile, sotto le bombe lanciate dal cielo?
Lucarelli costruisce insomma un personaggio ambiguo, in lotta ai propri occhi e a quelli della coscienza del lettore tra la smania per “il Senso della Verità e della Giustizia” (corsivo nel testo) che mi ha ricordato l’orgoglio intellettuale dell’echiano Guglielmo da Baskerville, e un più egoistico, anzi egocentrico rintanamento nel proprio mondo interiore, disinteressato ai rivolgimenti politici che lo circondano, e tutto solo occupato da “un pensiero fisso, arrivare fino in fondo, capire, scoprire, a qualunque costo… così ti puoi dimenticare di tutto il resto, le difficoltà quotidiane, le responsabilità di una vita normale, anche la politica”.
Anche la politica! Ecco il peccato mortale di De Luca: l’aver subordinato la storia del Paese alla risoluzione di un caso di cronaca nera, l’aver anteposto la superbia dell’intelletto agli affetti. Qualcuno cerca di farglielo capire: “Che senso ha dare la caccia agli assassini in un mondo di assassini?” e quel rimprovero, ancora una volta, mi ricorda l’adagio che a lungo risuona nel teatro in decadenza del “Nome della Rosa” – mundus senescit – e il biasimo che Ubertino da Casale rivolge a Guglielmo e la disperata disapprovazione per il contegno del maestro rivoltagli dal giovane Adso da Melk.
Ma cosa avrebbe dovuto fare? “Mollare tutto e andarsene, come avevano fatto il re, Badoglio e tutto il resto del governo, i generali, i soldati […]. Scappare da questo mondo maledetto, dal tenente della Gestapo che lo chiamava kolèga, e salvarsi la pelle”?
Non lo fa, De Luca. Ma fino in fondo non saprà dire se il suo è un gesto di amore assoluto per la giustizia, al di là di tutto, o un vezzo della propria egoistica presunzione e del compiacimento fine a se stesso. Così rimaniamo, alla fine del libro, con la soddisfazione per il caso che si risolve ma, a un tempo, con l’amaro in bocca, con il gusto aspro e triste di chi non sa se la propria condotta morale sarebbe potuta essere migliore.
Giacomo Verri, scrittore
Pubblicato giovedì 24 Gennaio 2019
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