La Sardegna non è stata interessata dalla Resistenza per come si è costituita e dispiegata nelle regioni dell’Italia continentale che, dopo l’armistizio dell’8 settembre del 1943, erano sotto il tallone d’Achille della Wermacht e delle SS con l’ausilio dei fascisti della costituenda Repubblica sociale di Salò.
Ciò non significa che in Sardegna non ci siano stati episodi di Resistenza o che i sardi non abbiano partecipato alla Resistenza e alla lotta di Liberazione. Basti pensare agli episodi di La Maddalena, di Oristano e di Macomer che hanno visto i primi scontri di militari italiani con i tedeschi in ritirata o con i corpi fascisti dell’esercito italiano di stanza in Sardegna. Così come è notorio e documentato l’apporto dato dai sardi, giovani soldati e no, alla Resistenza e alla guerra di Liberazione.
Molti sardi hanno partecipato alla Resistenza, nel continente e anche all’estero. Nel continente c’erano i sardi che provenivano dall’antifascismo e/o dalle carceri e dal confino fascista. Ricordiamo, ad esempio, il medico oristanese Flavio Busonera, ucciso dai fascisti nell’agosto 1944; oppure il monserratino Mario Corona, comandante partigiano a Santa Croce-Fucecchio; o Gavino Cherchi, di Ittireddu, partigiano del CNL di Parma, arrestato dai tedeschi il 5 marzo 1945 e fucilato 20 giorni dopo; o ancora Vittore Bocchetta, oggi centenario, partigiano del CNL di Verona e deportato nei lager nazisti. All’estero c’erano i soldati sardi nelle truppe italiane di occupazione in Grecia, in Jugoslavia, in Albania – dove nasce la Divisione “Gramsci” che vede partecipi molti sardi – e che, sfuggiti al giogo tedesco, si sono trasformati da invasori in liberatori di quei popoli partecipando alle Resistenze di quei Paesi.
Ma la stragrande maggioranza dei sardi che hanno partecipato alla Resistenza e alla guerra di Liberazione sia nelle formazioni partigiane sia nel Corpo di Liberazione del ricostituito esercito italiano, circa 6mila, è rappresentata dai militari che sono stati sorpresi in continente dall’armistizio dell’8 settembre ’43. E sono circa 10mila i soldati sardi che dopo l’8 settembre saranno arrestati dai tedeschi e finiranno come IMI (Internati Militari) nei campi di concentramento e di lavoro in Germania.
La storia di molti di loro, partigiani e deportati, ha avuto una prima ricostruzione organica grazie all’Issrae, ai libri curati dal gruppo dei giovani storici coordinati dal professor Manlio Brigaglia e in diversi libri di memoria di chi è stato partecipe di queste vicende, Dario Porcheddu e altri.
Più di recente la ricerca è proseguita e si sono moltiplicate le pubblicazioni e le video interviste (le ultime, tra le altre, a Nino Garau, a Modesto Fenu, a Nico Motzo e a Mario Corona).
Insomma è maturata ed è in corso, soprattutto per merito degli Istituti di ricerca storica su Antifascismo e Resistenza e di Anpi, Uaps e Anppia, un’opera di ricostruzione di storie di antifascisti, di partigiani e combattenti della guerra di Liberazione, di deportati che hanno il merito di rendere memoria a persone, giovani e meno giovani, la cui vita ha assunto – per la scelta di “stare dalla parte giusta” o per un gesto generoso – un alto valore simbolico e di esempio. In questo senso è necessario siano ricordati non solo gli eroi dai nomi altisonanti ma anche gli “eroi”, o gli “antieroi” loro malgrado, che con quella scelta o quel gesto hanno contribuito a scrivere una storia minima che insieme alle altre storie minime fa una grande storia collettiva. In questi termini la memoria reca anche un contributo più ampio.
Ha scritto un importante storico che occorrerebbe fare un po’ meno memoria e un po’ più di storie locali, anche minime, perché sono il collante di una comunità.
In questo senso va collocato il contributo di Giacomo Mameli con il suo nuovo libro “La chiave dello zucchero” per le edizioni Il Maestrale, che fa seguito a precedenti contributi dello stesso autore quali “La ghianda è una ciliegia” e “Il forno e la sirena”.
Mameli ritiene, a ragione, che la Sardegna e i sardi “sono stati coinvolti più di quanto appaia e più di quanto si sappia” e perciò dà voce ai protagonisti, “soldati semplici” i cui ricordi “non sempre coincidono con quelli dei generali e degli storici” e propone pagine di storie ma, soprattutto, di Storia.
Mameli, come aveva fatto nei due precedenti libri, fa parlare in prima persona e con il proprio linguaggio i suoi protagonisti, siano essi partigiani o deportati, e inquadra la loro vicenda con ricchezza di dettagli che origina nelle loro genealogie e nei paesi di provenienza, negli studi fatti o non fatti, nella condizione sociale della famiglia e nelle vicissitudini che li hanno portati a El Alamein, in Piemonte, in Toscana o nel parmense.
Egidio Furcas finisce prigioniero degli inglesi in Kenia e rientrerà nel dopoguerra a riabbracciare la moglie Ester Boi, di Foligno, che nel frattempo è partigiana.
Mameli ci fa conoscere Francesco Salis, di Jerzu, il partigiano “Ulisse”, ucciso dai nazifascisti nella notte tra il 4 e il 5 marzo 1944 nei pressi del santuario Valmala in Val Varaita, sotto il Monviso; e poi Iolando Fosci di Gonnosfanadiga, partigiano in Toscana, che talvolta si ritrova sordo e muto come lo fu per 34 giorni dopo lo spezzonamento angloamericano del suo paese, il 17 febbraio 1943, che causò 83 morti.
Infine, nel capitolo su Vittorio Vargiu (il sacrista buono) di Ulassai, Mameli ci racconta di tre partigiani sardi che hanno operato in Toscana, nella zona di Volterra e sono stati uccisi dai nazifascisti: oltre allo stesso Vargiu, sul quale è incentrato il capitolo, si ricorda Francesco Piredda, di Nuoro, ucciso insieme a lui in Val di Cecina il 14 giugno 1944, e Alfredo Gallistru, ucciso due giorni prima, a cui Mameli dedica una “Appendice” con il discorso commemorativo che fece Giuseppe Fiori, suo compagno di gioventù al liceo.
Per tutti loro, e per i moltissimi sardi che hanno vissuto le stesse vicende, l’autore chiede un tributo di memoria, soprattutto per coloro che non lo hanno avuto con una lapide, una via, una scheda in un libro, o anche l’auspicio che siano ricordati dai loro concittadini e dalle amministrazioni dei Comuni di provenienza. Mameli, nei ringraziamenti finali, non manca di rendere omaggio a Vittorio Palmas, noto Cazzai, di Perdasdefogu, morto un mese fa all’età di 105 che aveva raccontato la sua storia di deportato IMI, passato anche per il lager di Bergen-Belsen, nel libro “La ghianda è una ciliegia” e “Il forno e la sirena”, dove il forno è quello che Cazzai è riuscito a evitare per due chili di differenza.
Aldo Borghesi, direttore dell’Istasac, si è impegnato negli ultimi anni per completare una ricerca sui partigiani sardi e, più in generale, sui sardi che hanno combattuto nella guerra di Liberazione nelle file del Corpo dei Volontari della Libertà del ricostituito Esercito italiano. Sarà una sorta di “Dizionario” a completamento del lavoro avviato dal gruppo del professor Brigalia e contribuirà a far conoscere persone e storie, sconosciute ai più, che devono far parte a pieno titolo del patrimonio storico, culturale e umano della Sardegna e dell’Italia.
Marco Sini, coordinatore Anpi Sardegna
Pubblicato venerdì 12 Luglio 2019
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