Uno dei piccoli esercizi di controllo sulla propria condizione esistenziale può essere riflettere sulle proprie radici, da quelle familiari a quelle culturali. Cosa si è ricevuto, su quali dimensioni e prospettive è evoluta la formazione che abbiamo e che stiamo ricevendo, come abbiamo vissuto le esperienze condotte. Ne va della possibilità di evolvere ulteriormente e valutare quanta contentezza sia presente nelle nostre vite, per constatare – perché no – che è magari più di quanto non pensiamo. Ciò che conosciamo dovrebbe darci quantomeno serenità, se non proprio gioia: il termine sapere viene dal latino sapére, aver sapore, gustare quel che si è capito. Quanto conosciamo dà sapore ai nostri giorni, ce li fa gestire al meglio. Del resto, nella tradizione ebraica i verbi conoscere e amare sono interscambiabili. Non si ama se non si conosce e conoscere è una forma tra le più alte dell’amore.
Va da sé che se vuoi rendere una persona infelice (fatti assolti i bisogni primari), la devi privare di un sapere autentico, che sostiene la vita con elementi di significato. Al contempo un individuo infelice può essere condotto facilmente verso ciò che gli si vuol far credere possa soddisfare il bisogno di vita piena e risolta. Lo sa bene il sistema di marketing mediatico, che si prefigge, dichiarandolo esplicitamente, di far crescere il livello dei desideri, e quindi del disagio nel non possedere: in modo da soddisfarli con i prodotti di consumo del mercato globale, per sedare le nostre angosce, placare le aspettative, farci mediare, rispetto a quanto sogniamo, con le contingenze del tempo presente. Fino, ovviamente, ai desideri successivi, a nuovi bisogni indotti. Quanto affermiamo ha una valenza storica, ma sicuramente evolve dal 900, fino all’epoca delle reti mediatiche, in forma esponenziale.
Quanto nei meccanismi della conoscenza attiene all’uso del testo scritto, in particolare del libro? Quanta gioia abbiamo vissuto attraverso i libri che abbiamo amato, perché magari ci hanno insegnato a amare? Pensarci fa parte di quella verifica dello stato delle nostre anime a cui accennavo.
Non tutti la pensano nello stesso modo, lo sappiamo bene: con la pratica concreta dell’assenza di lettura, o nella teorizzazione della sua pericolosità, proibendola o operando una selezione riguardo a ciò che si può leggere o no. Se si pensa a chi, nel corso del tempo, è stato sostenitore di quest’ultima tesi, possiamo disegnare una mappa storica dei poteri e delle dominazioni che hanno tentato di indirizzare l’umanità verso l’asservimento delle coscienze. Perché – sicuramente – uno dei tratti di ogni totalitarismo e di tutti i fondamentalismi è impedire la comunicazione delle idee, a partire dal concetto che da un’unica autorità e in solo libro ci siano già tutte quelle necessarie, e non ne servano altre. E per chiarire cos’è il fondamentalismo, Tommaso D’Acquino affermava “guardati dall’uomo di un libro solo, fosse anche la Bibbia”.
Il prestigioso drammaturgo Stefano Massini ha studiato un libro che ci siamo proibiti a lungo e lo ha confrontato con discorsi e oratoria del suo autore: nel 1924 viene pubblicato il Mein Kampf di Adolf Hitler. Dal lavoro di Massini scaturisce una pubblicazione di Einaudi, dal titolo omonimo, del 2024. La sua narrazione comincia con i roghi dei libri messi all’indice dal nazismo, già agli albori del regime, nel 1933.
Sul palco una pedana rettangolare, un po’ inclinata di lato, di un bianco abbagliante (del resto L’odore assordante del bianco era lo spettacolo di Massini del 2005 dedicato a Van Gogh) come una pagina: introducendo la rappresentazione, si accenna alla storia di Emil Erich Kastner, costretto ad assistere a tutti i roghi pubblici di libri a Berlino, pagine in cenere in cui si ridussero a nulla le sue stesse pubblicazioni, soprattutto libri per bambini. Kastner era un pacifista e un uomo libero: rinunciò a pubblicare nel suo Paese e alla libertà pur di non andarsene dalla Germania. Ci ricorda che “i nazisti…erano un libro. Niente sarebbe com’è stato milioni di morti sarebbero vivi e milioni di libri non sarebbero cenere se un ragazzo di nome Adolf chiuso in una cella a Landsberg non avesse scritto quel libro”.
E Massini ci esprime la sua lettura di Mein Kampf, un libro da conoscere per esorcizzarne una qual certa aurea magica, quella che circonda quel che ci viene proibito: solo nel 2016 torna nelle librerie tedesche, proprio perché leggendolo in chiave critica si può capire cosa sia davvero.
Un uomo frustrato, dalla giovinezza difficile, prigioniero della sua visione del mondo, che scopre la propria capacità di comunicare: riuscirà a farlo anche troppo bene e le sue idee daranno opportunità alla malvagità di molti esseri umani di strutturarsi in una ideologia, il cui successo forse dovrebbe smettere di stupirci. È la concretizzazione di una nevrosi, di una limitazione, l’incapacità di vedersi come una realtà compiuta dandone responsabilità ad altri. Da qui la costruzione dell’alterità come nemico e capro espiatorio. Con le conseguenze drammatiche che conosciamo ed effetti nefasti che continuano fino a noi, fino ad una stagione storica in cui suprematismo e sovranismo sono solo nomi diversi per esprimere un pensiero già definito, il quadro politico di un totalitarismo perseguito e in costruzione.
Senza nominare mai il nome, né mostrando le icone della sua dottrina, Massini ci fa respirare l’odore di una tragedia immane, quella che “l’imbianchino” (come lo chiamava Bertold Brecht: anche i suoi libri al rogo) Adolf Hitler ha inflitto al mondo. E che continua ad ammorbare il mondo, in quella parte di generazioni che si susseguono e sanno bene la sua malvagità e la vogliono rinnovare e perpetuare.
Nelle coincidenze dei fenomeni culturali, è in libreria da poche settimane Bebelplatz – La notte dei libri bruciati, di Fabio Stassi, che narra un viaggio di chilometri e di pensiero, nei luoghi, le circostanze, le corrispondenze intorno giustappunto ai roghi dei libri con cui il nazismo affermò il suo dominio, cercando un’eternità che durò solo 12 anni, sia pur secoli per chi ne soffrì le conseguenze.
Anticipo qui quella che potrebbe essere una delle mie conclusioni: quando nel 2016 Il Giornale offrì in allegato al quotidiano il Mein Kampf, senza apparato critico e molta ambiguità nel progetto editoriale, qualcuno postò in rete la foto, 2 maggio 1945, della bandiera rossa dell’Urss che sventola sul Reichstag, dopo la caduta di Berlino. Con un commento: leggete pure quel libro, tanto va a finire così. Ricordiamoci sempre che è vero: non hanno vinto. La domanda che non si può eludere resta quella sull’apparente vittoria, piuttosto, delle idee, visto come persistono in un immaginario collettivo che diviene usufruibile da diverse forze politiche. Scorrendo le biografie dei ministri del governo Trump negli Usa, le inquietudini a riguardo si moltiplicano…
Fabio Stassi, classe 1962, un bel percorso letterario con titoli di valore, una storia culturale importante (è di etnia arbereshe, la minoranza etno-linguistica albanese) trova nella memoria di quest’uso violento del fuoco, la chiave di lettura dell’analisi dei libri di autori e autrice italiani. I testi politici del pensiero socialista e marxista furono ovviamente i primi a subire l’annientamento: ma pensando a quelli meramente letterari, cosa può accomunare Pietro l’Aretino, Giuseppe Antonio Borgese, Emilio Salgari, Ignazio Silone e Maria Assunta Giulia Volpi? Un poeta dai versi licenziosi, un germanista scrittore e poeta, il narratore di avventure esotiche, uno scrittore socialista dissidente e un’autrice di romanzi d’amore… I loro libri suscitarono la radicale avversione dei volenterosi carnefici di libri (ben presto lo furono anche di esseri umani, a partire da quelli ricoverati nei manicomi e nelle strutture affini) che compilarono febbrilmente, e per molto tempo, liste di libri capaci di turbare il senso di normalità con cui il regime voleva ricondurre a una identità uniformata, non solo un popolo, ma il mondo intero.
Borgese e Silone sono stati l’espressione della cultura antifascista espressa attraverso la letteratura e la critica militante. Fontamara di Silone ebbe uno straordinario successo, e nacque dalle esperienze delle sue terre narrategli dai testimoni dell’oppressione fascista sui poveri. Facile capire perché i loro libri finirono sul rogo. Comprensibile anche che la poesia, corrosiva e sovversiva, del poeta toscano e l’amore interraziale – peraltro descritto dalla Volpi nella sua impossibilità – divengono le icone più definite del potere sconvolgente di una sessualità liberata, di vincoli che le donne, in molti ambiti, cominciavano a mettere in discussione.
Il fascismo consentiva vizi borghesi alle élite, una certa spregiudicatezza nei costumi morali, ma la facciata clericofascista non sopportava certo di vedere una donna bianca tra le braccia di un africano (sulla copertina del suo romanzo Sambadù, un amore negro) se non nella rappresentazione dello stupro. Ma che si potesse parlare di amore, quello non era ammesso. Le dittature sono anche questo spregio ai sentimenti. La virulenza contro le minoranze, in nome di una loro presunta aggressione verso il pregiudizio maggioritario e le culture che lo incarnano, resta un elemento fondamentale delle oppressioni operate dai regimi. È la prospettiva in cui si salda la repressione delle persone attraverso la dichiarata inaccettabilità dei loro sentimenti, con la violenza economica e strutturale che su altri piani minaccia la vita delle classi subalterne.
Per affezione personale alla mia prima giovinezza lascio da parte e ultimo il grande viaggiatore immobile, Emilio Salgari, dall’esistenza quanto meno travagliata. Ha fatto sognare generazioni di ragazzi e ragazze di tutte le età, senza ricavare frutto dalla sua inventiva. Finisce al rogo per il motivo per cui il Che Guevara lo amava (si vantava di aver letto 62 dei suoi romanzi, ne aveva uno con sé anche quando fu catturato in Bolivia): Salgari è l’espressione dell’avventura, nella dimensione libertaria anti colonialista, contro l’imperialismo britannico.
Ciò è evidente soprattutto nel ciclo di Sandokan, dove il membro di una cultura considerata inferiore è l’eroe, nobile e generoso, insieme ai suoi compagni, irregolari guerrieri contro l’ingiustizia. Possiamo pensarla come la resistenza della fantasia e della creatività – e penso che esse siano comunque impossibili fuori dalla libertà individuale e collettiva – contro tutto ciò che pretende di uniformare e ridurre a massa acritica ciò che non può esserlo, l’umanità.
La vicenda orribile dei roghi dei libri va letta in parallelo con ciò che i nazisti cercarono di operare in campo artistico. Nel 1937 una mostra itinerante nelle principali città tedesche presentava alla pubblica esecrazione opere confiscate nei musei statali, frutto di un’arte degenerata. Le avanguardie vi erano tutte rappresentate. Per paradosso, nell’elenco degli artisti accusati di tale devianza dai valori della patria e della razza ariana troviamo praticamente il vertice delle arti figurative del 900: come tale riconosciuto unanimemente. Molti di quei pittori morirono nei campi di sterminio.
Il monito è limpido. Contro le tirannie bisogna alimentare ciò che tiene sveglie le coscienze: la cultura, nelle sue molteplici accezioni. Anche troppo facile a dirsi. Tutelare lo spazio delle creatività, di pensiero e affettive, delle persone, è già ambito rivoluzionario. Continuiamo a operare in tal senso. Sono certo che vedremo sventolare altre bandiere sulle macerie di molti regimi.
Andrea Bigalli, docente di Cinema e teologia all’Istituto superiore di scienze religiose della Toscana, referente di Libera per la Toscana
Pubblicato domenica 8 Dicembre 2024
Stampato il 11/12/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/terza-pagina/librarsi/i-libri-si-bruciano-quellodio-nazista-contro-la-cultura/