L’Anpi è impegnata da sempre, a ogni livello, non soltanto a conservare e tramandare, ma anche ad arricchire la memoria della Resistenza attraverso una paziente, puntuale ricognizione delle forme in cui essa nacque e si sviluppò nelle diverse zone del Paese. Un impegno che s’intensifica man mano che vanno scomparendo, per effetto delle leggi inesorabili del tempo, i protagonisti e i testimoni diretti di quella epopea. In tale contesto si colloca il corposo volume di Giancarlo Zorzanello e Giorgio Fin intitolato Con le armi in pugno. Alle origini della Resistenza armata nel Vicentino: settembre 1943-aprile 1944: un volume patrocinato appunto dalla sezione Anpi di Cornedo Vicentino-Brogliano, unitamente all’Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea della provincia di Vicenza “Ettore Gallo” (Istrevi) e pubblicato da Cierre edizioni di Sommacampagna (Verona).
Gli autori del libro, che – come si sarà capito dal titolo – ricostruisce accuratamente la fase iniziale dell’organizzazione e dell’attività delle formazioni partigiane (e, sia pure per scorci, dell’opposizione al nazifascismo dopo l’8 settembre: si veda il capitolo dedicato agli scioperi operai del marzo 1944) in una particolare area geografica, non sono storici di professione, sebbene niente affatto a digiuno degli strumenti e dei metodi della ricerca storiografica. A motivarli è un imperativo etico-civile, ovvero la volontà di assicurare la sopravvivenza di un patrimonio di significative esperienze, di nobili idealità e di accese passioni, l’intento di scongiurare il totale oblio – per dirla in breve – di un “mondo vitale”, ma anche di contribuire a demistificare la letteratura “revisionistica” che ha avuto larga fortuna negli ultimi decenni e che ha manipolato spregiudicatamente i fatti, o li ha deliberatamente ignorati, oppure ha avanzato interpretazioni false e strumentali delle ragioni di quanti presero le armi per combattere l’oppressore.
Quello di Zorzanello e Fin è dunque propriamente una narrazione, che però non rinuncia al rigore scientifico (com’è attestato dalla meticolosa analisi delle fonti documentarie e dalla vasta consultazione del repertorio bibliografico) e si astiene da ogni retorica celebrativa.
A guardar bene, la Resistenza nel Vicentino presenta aspetti comuni con il più complessivo movimento di Liberazione, ma anche originali. Per cominciare, anch’essa ebbe una dimensione corale: non soltanto per la variegata composizione sociale delle formazioni combattenti, ma anche per il largo sostegno offerto loro dai civili e persino dal clero. Inoltre, pure in questo territorio si verificarono contrasti e conflitti fra gruppi di differente orientamento ideologico, con esiti talora cruenti (come nel caso dell’uccisione di quattro partigiani comunisti per opera di partigiani cattolico-badogliani a Malga Silvagno, il 28 dicembre del 1943), e si manifestarono divergenze fra i quadri del medesimo partito, (per esempio fra comunisti “stalinisti”, ligi alle direttive del comando regionale garibaldino, e comunisti “umanitari” o “locali”, che rivendicavano autonomia decisionale e propugnavano una linea attendista perché ritenevano che non fossero mature le condizioni per dare avvio alla lotta armata). Infine, pure nella provincia di Vicenza la Resistenza “politica” convisse con la Resistenza “esistenziale”, in cui sentimenti di rivalsa individuale e sociale si mescolavano all’insofferenza verso ogni vincolo di disciplina, allo spirito d’avventura, alla ribalderia, all’esercizio incontrollato della violenza. A questa componente dello schieramento partigiano che trovò la sua emblematica incarnazione nella figura di Giuseppe Marozin va ascritta in massima parte la responsabilità di condotte moralmente riprovevoli (esecuzioni sommarie e persino stupri), ma soprattutto della mancata valutazione delle conseguenze che azioni militari e atti dimostrativi avrebbero avuto sulla popolazione, troppo disinvoltamente esposta alle rappresaglie delle truppe d’occupazione tedesche e delle milizie repubblichine.
Ma, si diceva, la Resistenza armata nel Vicentino rivela anche tratti peculiari, in buona misura derivanti dalla conformazione fisica e antropica dei luoghi che ne furono teatro (in proposito, riesce prezioso il corredo fotografico al testo scritto). Furono appunto le caratteristiche del paesaggio, naturale e umano, più ancora che l’esiguità delle forze effettivamente disponibili sul terreno, a consigliare la tattica della “guerriglia di movimento”, attuata da pattuglie costituite di poche unità la cui scarsa capacità offensiva era compensata dalla rapidità di spostamento, e dunque dalle maggiori possibilità di colpire a sorpresa come pure di sottrarsi ai rastrellamenti.
Con le armi in pugno dunque, nonostante la limitatezza spaziale e temporale delle vicende prese in esame, conferma la complessità e la poliedricità del fenomeno resistenziale e ne amplia la conoscenza; ma un suo ulteriore merito sta nel suggerire utili spunti di riflessione in ordine al controverso rapporto fra memoria e storia. Sappiamo che la memoria individuale è parziale, selettiva, che si affievolisce e muta con l’andare degli anni; che la memoria collettiva è una costruzione artificiale; che entrambe restituiscono una rappresentazione non del tutto certa degli accadimenti e della loro dinamica, ma soprattutto non consentono di comprenderne fino in fondo le cause. Abbiamo bisogno della storia non soltanto per impedire la dissipazione del passato, ma anche per avere una cognizione esatta – o quanto meno attendibile – degli eventi realmente accaduti, dei fattori che li producono e del loro svolgimento.
La domanda è se la memoria occupi una posizione ancillare rispetto alla storia o se non le vada, al contrario, riconosciuta una pari dignità. Gli autori di questo libro forniscono implicitamente una risposta allorché antepongono alle astratte “generalizzazioni” del discorso storiografico lo sguardo ravvicinato sulla concreta esistenza dei partigiani (di molti dei quali viene tracciato un breve profilo biografico), sui moventi delle scelte individualmente compiute e sulle loro conseguenze: con il risultato di riscattare – manzonianamente, verrebbe da aggiungere – dall’anonimato la piccola, umile folla che fece la Resistenza nelle loro terre, e nella convinzione che sia doveroso onorare il debito di gratitudine contratto con quegli uomini e con quelle donne, che giovi ricordarsi delle loro speranze, del loro coraggio, del loro sacrificio perché racchiudono un monito e un insegnamento ancora attuali.
Ferdinando Pappalardo, vicepresidente nazionale Anpi, presidente onorario comitato provinciale Anpi Bari
Pubblicato sabato 16 Aprile 2022
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