Non furono soltanto i nazisti a voler sterminare gli ebrei dell’Europa Orientale: un aiuto venne loro – per esempio – dalle popolazioni ucraine, polacche e bielorusse. Dall’invasione tedesca del 1939, la situazione per gli ebrei di quei Paesi si fece ancora più difficile, poiché al consueto pregiudizio antisemita cattolico e ortodosso si sovrappose l’ideologia razziale nazista. Ai tradizionali pogrom antiebraici si affiancò, con l’occupazione nazista, il progetto di cancellazione del popolo ebraico.

In Ucraina, in particolare, il collaborazionismo fu un fenomeno rilevante: tra i trenta e i quarantamila furono coloro che coadiuvarono le SS nella persecuzione e nello sterminio del milione e mezzo di ebrei ucraini, di cui pochissimi sopravvissero fino alla fine della guerra. È sufficiente ricordare l’eccidio di Kamenec-Poldoski (agosto ’41) dove furono trucidati più di ventimila ebrei, o quello di Babi-Yar (settembre ’41) nei pressi di Kiev, dove le SS con la collaborazione della polizia ucraina massacrarono circa centomila ebrei, di cui un terzo bambini. Dal settembre del 1942 i tedeschi istituirono decine di ghetti per procedere, in seguito, allo sgombero, deportando intere famiglie nel campo di sterminio di Belzec, nella Polonia sud-occidentale.

Tra la fine del 1942 e il 1944 si svolge il nuovo romanzo di Aharon Appelfeld.

Aharon Appelfeld (http://www.borderkitchen.nl/wp-content/uploads/2017/02/Aharon-Appelfeld-2.jpg)

Appelfeld, nato nel 1932, ebreo della Bucovina (territorio compreso tra Romania e Ucraina) nel 1941 sfugge allo sterminio della sua famiglia, riuscendo a scappare nelle foreste ucraine, dove sopravvivrà assieme a un gruppo di partigiani e sbandati fino all’arrivo dell’Armata Rossa nel 1944-’45. Nel 1946 il giovane Appelfeld salpò per Israele (allora Palestina, sotto mandato britannico) diventando uno dei maggiori scrittori israeliani.

Appelfeld racconta in questo romanzo una densissima storia di resistenza ebraica. Per quanto si tratti di un fenomeno marginale, rispetto ad altri movimenti partigiani europei, è esistita una resistenza armata di ebrei che non intendevano in nessun modo farsi mandare al macello dai nazisti. Questo movimento partigiano è stato argomento di uno dei libri meno compresi e letti di Primo Levi, ossia Se non ora quando, uscito nel 1982, che racconta le vicende di alcuni partigiani ebrei polacchi. Ma nella galassia del movimento partigiano ebraico va menzionata la Brigata Bielski dei fratelli Bielski, partigiani ebrei bielorussi che salvarono dai ghetti centinaia di persone, di loro ha scritto la storica Nechama Tec (Gli ebrei che sfidarono Hitler, uscito nel 1993 per Sperling e Kupfer).

Edmond, giovane voce narrante del romanzo, ha diciassette anni ed è riuscito a sfuggire da un ghetto, in un luogo non precisato dallo scrittore, si unisce poi a un gruppo di quarantaquattro partigiani ebrei che opera nella foresta dei Carpazi. Attraverso il protagonista, Appelfeld racconta l’epica quotidiana di questi partigiani, il loro microcosmo intellettuale e umano, le letture e l’importanza dei libri, le loro discussioni, la loro vita per così dire “naturale”: il farsi macchia, bosco, acqua e fango per sfuggire ai soldati tedeschi: «Le esercitazioni e gli agguati non ci indeboliscono. Immagino un giorno o l’altro, fra non molto, diventeremo creature del bosco, gli alberi e i cespugli ci avvolgeranno come un manto ampio e caldo».

Le attività contro i tedeschi e i collaborazionisti ucraini; le requisizioni di cibo ai contadini cercando sempre di «prendere il necessario senza furore»; il rischio continuo della morte, la fame e il freddo; la dialettica – all’interno del gruppo partigiano – tra retaggio biblico e tradizione sapienziale (come la Torah) che diventa parola emancipatrice per alcuni combattenti (aspetto rappresentato dal capo Kamil) da un lato e dall’altro il comunismo di alcuni di loro che considerano la religione un cumulo di superstizioni da superare. Quest’ultimo aspetto è descritto con un linguaggio asciutto ma efficace nel rivelare le diverse ideologie del gruppo.

28 agosto 1941: le squadre speciali delle SS e della Gestapo, assieme ai collaborazionisti ucraini, sterminano a Kamenec-Poldoski circa 20mila ebrei a colpi di mitragliatrice

Allo stesso tempo Appelfeld vuole rendere i suoi personaggi paradigmi esistenziali: Tsirel, la vecchia che segue il gruppo e che «percepiva il Signore in ogni cespuglio e in ogni albero», rappresenta un ebraismo incontaminato e pare uscita da una pagina biblica; la cuoca Tsila è la concretezza e la pragmaticità; Kamil, che cita continuamente il salmo Il Signore è il mio pastore, è il carisma religioso e profetico, opposto a quello laico del vicecomandante Felix, partigiano scettico ed eroico. Attraverso la sobrietà dei dettagli, Appelfeld vuole farci arrivare all’essenza etica dei suoi personaggi.

Il partigiano Edmond prova a correggere, fosse anche di un millimetro, lo stereotipo della passività e remissività degli ebrei di fronte al bestiale progetto di sterminio dei nazisti tedeschi nei loro confronti. I partigiani di Appelfeld non intendono essere condotti alla morte come «pecore al macello», per usare l’espressione di Abba Kovner, poeta e capo della resistenza ebraica nel ghetto di Vilnius. Tra le pagine più memorabili, infatti, sono quelle in cui si manifesta lo sgomento dei contadini ucraini di fronte ai partigiani:

«Chi siete?» chiese a un tratto il vecchio rivolto a Felix.

«Partigiani. Non vedi che siamo partigiani che combattono per la giustizia?»

«A me sembrate ebrei.»

«E allora?»

«Uno non si aspetta che gli ebrei combattano.»

«È arrivato il momento di superare i pregiudizi.»

«Non darò il mio cibo agli ebrei», esclamò.

«Se non ce lo dai, ce lo prendiamo da soli.»

«Maledetti» dalla gola dell’anziano sbottò una voce roca.

Ma si possono riportare anche le parole di Fritz Stangl, il comandante nazista di Treblinka, che afferma come gli ebrei si facessero fare qualunque cosa (così nei colloqui che ebbe Stangl, nel carcere di Düsseldorf, con Gitta Sereny e riportate nel libro In quelle tenebre).

L’attività fondamentale dei partigiani, oltre alle incursioni e agli agguati, è quella di sabotare i treni che portano ai campi di sterminio (in una di queste azioni parte del gruppo verrà uccisa, morirà anche il capo Kamil, giusto prima dell’arrivo dell’Armata Rossa e della liberazione); dopo uno di tali sabotaggi, di fronte agli ebrei appena salvati che il nazismo avrebbe voluto ridurre a polvere nell’aria, di fronte a un popolo di sommersi e incapaci di reazione, anche per oggettive difficoltà di ogni genere, si alza, pur nella violenza irreparabile della Shoah, la voce del partigiano ebreo comunista Karl:

«“È vero che il mondo è pieno di empietà e ingiustizia, che ci sono crudeli assassini e trame per sterminarci, ma noi non perderemo le nostre sembianze umane. Le conserveremo”. Parlava con voce chiara e determinata. Di certo gli scampati capirono solo un briciolo delle sue parole, erano così malati e deboli che facevano fatica anche solo a mandar giù un cucchiaino di pappa».

Sebastiano Leotta, docente di storia e filosofia al liceo “Cornaro” di Padova