Lelio La Porta prosegue la sua appassionata attività divulgativa dell’opera di Antonio Gramsci, curando questa volta un’antologia dei testi dedicati all’interpretazione della letteratura, intitolata per l’appunto Scritti di letteratura (Editori Riuniti 2019, pp. 196). Questo interesse fu uno dei maggiori in Gramsci, e si protrasse a lungo: dai primi studi universitari torinesi, in filologia moderna, fino agli ultimi giorni della lunga prigionia fascista, che aveva tentato di “impedire al suo cervello di funzionare” (ma anche in questo il fascismo fu sconfitto, con la stesura dei Quaderni del carcere).
Il libro non è di quelli che interessino esclusivamente un pubblico di specialisti dell’argomento. La riflessione del grande dirigente e teorico comunista non è mai disgiunta, infatti, dalla connessione alla prassi politica che caratterizza tutti i suoi scritti, anche quelli apparentemente più “disinteressati” (per citare la famosa lettera a Tania) quali gli scritti rivolti alla letteratura.
Com’è noto, nel pensiero di Gramsci è centrale il tema dell’egemonia, circa la necessità di costruire consenso attorno all’ideologia della classe operaia da parte di strati più ampi della società, anziché puntare al rovesciamento del regime borghese solo sul piano delle istituzioni statali. In questa chiave diviene centrale la riflessione sulla cultura, che però va intesa in senso ampio: da una parte, i comunisti devono comprendere quello che è il concreto senso comune delle classi popolari italiane, di cui sono manifestazione tanto i fenomeni di costume quanto il più atavico folclore; dall’altra, devono criticare la cultura “alta”, espressa dall’arte e dalla filosofia della società borghese. Lo studio della letteratura si rivela dunque un potente strumento analitico dei rapporti sociali, volto alla loro trasformazione.
Ma anche guardando al campo specialistico, l’antologia rappresenta uno strumento particolarmente utile, in un momento di rinnovata attenzione all’aspetto critico-letterario dell’opera di Gramsci (si veda, ad esempio, il recente volume collettivo Il presente di Gramsci. Letteratura e ideologia oggi, Galaad 2018). Risale infatti al 1975 la precedente raccolta di riferimento di scritti gramsciani sulla letteratura, a cura di Giuliano Manacorda, intitolata Marxismo e letteratura. Un testo oggi introvabile, e soprattutto redatto in un’epoca degli studi ancora priva dell’edizione critica dei Quaderni, completata poco dopo, nello stesso anno, da Valentino Gerratana per Einaudi. Rispetto a quel libro, la nuova antologia è maggiormente selettiva, e introduce i riferimenti filologici necessari, nell’indicazione esatta del quaderno e del numero di paragrafo del testo. Inoltre, La Porta fornisce un solido apparato di note, che permette di orientarsi agevolmente tra le numerose opere e persone citate negli scritti gramsciani. I testi selezionati non sono tratti solo dai Quaderni, bensì anche dalle lettere e dagli scritti pre-carcerari, come le cronache teatrali stilate dal giovane militante socialista per la redazione torinese dell’Avanti!. Dopo una breve nota introduttiva e un profilo biografico dell’autore, l’antologia è suddivisa in cinque capitoli con relative introduzioni specifiche, rispettivamente: 1. Dante; 2. Manzoni; 3. Pirandello; 4. Letteratura popolare; 5. Il futurismo. Il libro seleziona dunque gli scritti dedicati ad alcuni temi della letteratura nazionale: un interesse, quello nazionale, sicuramente prevalente in Gramsci, dato il fine pratico a cui si accennava precedentemente, ma non esclusivo. Può sorprendere inoltre, a tal riguardo, l’assenza delle dense pagine dedicate al Principe di Machiavelli, o quelle di carattere metodologico sulla critica letteraria di De Sanctis e di Croce. Una dimensione più ampia emerge tuttavia dal modo in cui Gramsci legge gli autori in oggetto, ovvero dal carattere fortemente comparatistico della sua riflessione, che pone il contesto italiano in parallelo alla letteratura europea e internazionale.
Questa prospettiva si fa evidente soprattutto negli scritti raccolti nel quarto capitolo dell’antologia. Qui occorre distinguere chiaramente due interessi gramsciani, talora confusi: da una parte, quello sociologico per la «letteratura popolare», nel senso limitativo di letteratura d’appendice, o se vogliamo “bassa”; dall’altra, quello per la mancata formazione, in Italia, di una «letteratura nazionale-popolare». I due interessi sono articolati da Gramsci, rispettivamente come punto 9 e 1 (ultimo e primo), in una nota intitolata Nesso di problemi (Q21 §1), opportunamente inclusa alle pp. 120-3. Quello di nazionale-popolare (scritto anche all’inverso, popolare-nazionale, a indicare l’identità dei due termini, secondo il concetto di popolo-nazione) è un aggettivo che per Gramsci porta in sé un intero problema, tra i più importanti affrontati nei Quaderni: la mancanza di connessione tra popolo e intellettuali. Egli rileva che in Italia, a differenza di altri Paesi europei, la grande maggioranza degli intellettuali di professione sia a lungo rimasta una casta separata dalla vita politica nazionale, innanzitutto per influenza delle istituzioni cattoliche. Una partecipazione all’interesse nazionale e dunque popolare, tipica di Paesi come la Francia formata dalla rivoluzione borghese, o anche della più simile Germania, quindi un ruolo progressivo degli intellettuali e della piccola borghesia in senso democratico, avrebbe prodotto una coscienza civile popolare che invece in Italia è mancata. Questa riflessione di carattere storico è per Gramsci necessaria alla nuova classe che ambisce a divenire egemone, attraverso l’azione del partito comunista.
Il limite storico di quella parte di intellettuali di professione, costituita dagli scrittori italiani, emerge nelle riflessioni rivolte ai Promessi Sposi. Celebre è la critica gramsciana al grande romanzo storico – che pure aveva innovato fortemente la letteratura nazionale, elevando a protagonisti due popolani – per la rappresentazione paternalistica degli umili, indice di un carattere non nazionale-popolare, ovvero di un distacco tra scrittori e popolo. Leggiamo direttamente il testo di Gramsci, dalle pagine dell’antologia: «carattere “aristocratico” del cattolicismo manzoniano appare dal “compatimento” scherzoso verso le figure di uomini del popolo (che non appare in Tolstoj)» (p.65); «i popolani per Manzoni, non hanno “vita interiore”, non hanno personalità morale profonda. Essi sono “animali” e il Manzoni è benevolo verso di loro» (pp. 65-6); «L’atteggiamento di Manzoni verso i suoi popolani è l’atteggiamento della Chiesa cattolica verso il popolo: di condiscendente benevolenza, non di medesimezza umana. […] Si può mostrare che il “cattolicismo” anche in uomini superiori e non gesuitici come il Manzoni […] non contribuì a creare in Italia il “popolo-nazione” neanche nel Romanticismo, anzi fu un elemento anti-nazionale-popolare e solamente aulico» (p. 66).
Sui motivi della mancata formazione del romanzo nazionale-popolare all’epoca del Risorgimento, Gramsci trova una risposta ulteriore in relazione alle forme artistiche: in Italia, come genere nazionale-popolare, si è affermato il melodramma anziché il romanzo (pp. 156 sgg.). Oltre all’analisi critica, emergono dalle pagine gramsciane anche elementi di poetica, ovvero indicazioni per una nuova letteratura che sia al contempo artistica e popolare. Modelli di riferimento sono indicati nei romanzieri russi, Tolstoj e Dostoevskij: «certo nulla impedisce teoricamente che possa esistere una letteratura popolare artistica – l’esempio più evidente è la fortuna “popolare” dei grandi romanzieri russi» (p. 127). Il tratto caratteristico della loro opera, alla base della loro connessione sentimentale al popolo, è individuato nello «spirito evangelico del cristianesimo primitivo».
Venendo all’epoca sua contemporanea, Gramsci vede anche nell’opera di Pirandello un carattere non popolare-nazionale, ma su un piano diverso. Va posta in evidenza l’importanza di queste pagine in termini di storia della critica, in quanto il giovane sardo fu uno dei primi interpreti del drammaturgo, nelle “Cronache teatrali” dell’Avanti! riportate nell’antologia. In una di esse (del 1917) si può leggere la felicissima e celebre metafora: «Pirandello è un ardito del teatro. Le sue commedie sono tante bombe a mano che scoppiano nei cervelli degli spettatori e producono crolli di banalità, rovine di sentimenti, di pensiero» (p. 109). Tesi di Gramsci, approfondita nei Quaderni, è che Pirandello sia stato «più grande come innovatore del clima culturale che come creatore di opere artistiche» (pp. 85-6). Ma ciò non ha solo intento diminutivo, in quanto nell’interesse gramsciano conta più la portata culturale, ideologica, della letteratura, piuttosto che gli aspetti strettamente artistici: «egli ha contribuito molto più dei futuristi a “sprovincializzare” l’“uomo italiano”, a suscitare un atteggiamento “critico” moderno in opposizione all’atteggiamento “melodrammatico” tradizionale e ottocentista» (p. 86). Eppure, sebbene notoriamente avversata, nel giudizio gramsciano si sente ancora il peso dell’estetica crociana, proprio nel separare gli elementi poetici da quelli critici («è però il Pirandello libero di ogni intellettualismo? Non è più un critico del teatro che un poeta, un critico della cultura che un poeta, un critico del costume nazionale-regionale che un poeta?», p. 89), la cui connessione nella letteratura è invece spesso indistricabile. Il carattere «“individuale”, incapace di diffusione nazionale-popolare» (p. 97) dell’opera di Pirandello, a cui si accennava, sta nel fatto che il suo teatro della “crisi del reale” non comprenda le basi sociali delle trasformazioni culturali moderne, e resti dunque «intellettualismo astratto» (p. 88).
Rispetto alle riflessioni rivolte a Pirandello e Manzoni, le pagine sul decimo canto dell’Inferno restano circoscritte all’aspetto più strettamente artistico, e la critica sociale si rivolge piuttosto agli interpreti di regime. Gramsci vuole porre in rilievo un dato a suo avviso trascurato, ovvero egli ritiene che il culmine drammatico del canto sia collocato nella figura di Cavalcante, per contrasto a quella di Farinata, che l’ha oscurata nella ricezione. A tal proposito, fornisce riflessioni di carattere stilistico, circa la modalità indiretta della rappresentazione delle passioni. Che però, sottolinea, non va confusa con una «critica dell’inespresso», ovvero «una storia dell’inesistito» (p. 33).
Tornando invece al capitolo quarto dell’antologia, Letteratura popolare, va fatto un riferimento ulteriore alla condizione del prigioniero politico. È il limitato accesso ai testi, quelli concessi dall’istituzione carceraria fascista, a sviluppare l’interesse per la letteratura d’appendice, o popolare in senso limitativo: i feuilletons di ampio consumo. Quali sono i motivi del successo duraturo dei romanzi di Dumas, di Verne, di Conan Doyle, perfino di Montépin o di scrittori ancor più dozzinali? Per quale motivo hanno maggiore diffusione gli autori stranieri tradotti? Ciò che interessa al prigioniero comunista è la comprensione dell’immaginario e del senso comune delle classi popolari. È naturalmente uno studio non limitato al carattere estetico di queste opere, bensì uno studio culturale. In una breve pagina, Gramsci rileva peraltro l’arretratezza, nell’Italia del suo tempo, del «concetto di cultura», in quanto ancora «prettamente libresco: i giornali letterari si occupano di libri o di chi scrive libri. Articoli di impressioni sulla vita collettiva, sui modi di pensare, sui “segni del tempo”, sulle modificazioni che avvengono nei costumi, ecc., non si leggono mai. […] Manca l’interesse per l’uomo vivente, per la vita vissuta» (p. 169). La portata innovativa di un tale approccio ha ispirato, in seguito, i primi Cultural Studies britannici, sviluppati in stretta relazione alla ricezione dei Quaderni.
Anche in questo campo troviamo proposte di poetica. Ad esempio, nell’interesse rivolto allo Spartaco di Raffaele Giovagnoli (1878), romanzo popolare di chiara connotazione politica, connessa alla simbologia dell’immaginario socialista (basti pensare alla Lega Spartaco tedesca). Per Gramsci, il romanzo «si presterebbe a un tentativo che, entro certi limiti, potrebbe diventare un metodo: si potrebbe cioè tradurlo in lingua moderna: […] si tratterebbe di fare, consapevolmente, quel lavorio di adattamento ai tempi e ai nuovi sentimenti e nuovi stili che la letteratura popolare subiva tradizionalmente quando si trasmetteva per via orale e non era stata fissata e fossilizzata dalla scrittura e dalla stampa» (p. 153). Ciò, evidentemente, al fine di riformulare secondo esigenze nuove, come avveniva coi miti antichi, un’opera letteraria organica alla simbologia del proletariato.
Sempre in questa sezione, tra i molti contributi, risalta un’ampia nota sulla Origine popolaresca del “superuomo” nietzschiano (pp. 163 sgg.), a cavallo tra l’intento demistificatorio e una vena gustosamente sarcastica, tipica dell’affilatissima penna gramsciana. Quest’ultima appare specialmente efficace nel ritratto dei futuristi. Dalla iniziale difesa del movimento, in quanto parte di un rinnovamento artistico rivoluzionario nel quadro più ampio del modernismo europeo (scritto che costituisce una delle primissime prove del giovane studente sardo, pubblicato sul Corriere universitario torinese nel 1913), dopo le aberranti prolusioni di entusiasmo futurista per la guerra Gramsci specificò ulteriormente il suo giudizio, rilevando il contrasto tra il merito di rinnovamento formale e la sostanza reazionaria della loro ideologia. Tanto da poter trarre, ormai nel carcere fascista, una folgorante caricatura dalla loro parabola letteraria: «i futuristi. Un gruppo di scolaretti che sono scappati da un collegio di gesuiti, hanno fatto un po’ di baccano nel bosco vicino e sono stati ricondotti sotto la ferula dalla guardia campestre» (pp. 192-3).
Quelli fin qui esposti sono solo alcuni dei temi offerti dagli Scritti di letteratura. Oltre alla loro importanza in termini storici, si può ben dire che queste pagine continuano a fornire un’indicazione metodologica feconda, tanto alla critica letteraria quanto alla critica sociale. L’auspicio, pertanto, è che la nuova antologia possa avere un’ampia diffusione, innanzitutto tra i docenti scolastici chiamati al compito dell’insegnamento, e inoltre presso nuove leve di studiosi alla ricerca di una solida prospettiva critica.
Francesco Marola, ricercatore Università degli Studi dell’Aquila
Pubblicato venerdì 6 Marzo 2020
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