La narrazione storica sta vivendo, non solo in Italia, una stagione particolarmente feconda: romanzi e racconti a sfondo storico si moltiplicano, favoriti da un nuovo interesse del mercato editoriale e dalle propensioni del pubblico e della critica, sancite, da ultimo, dall’assegnazione del prestigioso premio Strega di quest’anno, proprio a un romanzo storico, M. il figlio del secolo, di Antonio Scurati.
Ci possono essere molte spiegazioni per quello che a prima vista può apparire una sorta di revival della grande tradizione del romanzo realista ottocentesco. In verità, anche se questo elemento può essere considerato parte del quadro, non è però sufficiente a spiegare questa ripresa. Non si tratta, qui, di accompagnare l’ascesa di una classe sociale e la sua volontà di plasmare l’intera società a propria immagine, quanto piuttosto dell’emergere di un’altra aspirazione: quella di riconsiderare gli eventi della grande storia alla luce delle vicende individuali e collettive di personaggi noti e meno noti, alla luce di quelle che l’antropologia chiama “storie di vita” e che spesso evocano percorsi molto particolari e soggettivi non solo di partecipazione ma anche di percezione di eventi di grande portata.
Questa istanza nasce in ambito prevalentemente storiografico, in particolare per quanto riguarda le due guerre mondiali: il centenario della prima guerra mondiale, appena trascorso, si è svolto infatti all’insegna di una ricostruzione degli eventi che, capovolgendo precedenti impostazioni, ha assunto come elemento chiave il punto di vista dei combattenti, le loro storie personali e il modo in cui la guerra ha condizionato i destini individuali e collettivi.
Anche per quanto riguarda il secondo conflitto mondiale, ormai da tempo, i paradigmi di una narrazione che in passato è stata prevalentemente politica e militare sono stati trasformati in profondità da una crescente attenzione rivolta all’esperienza delle popolazioni, ai traumi collettivi e individuali che si sono trascinati ben oltre il conflitto armato, a tutti gli eventi compendiati sotto la definizione generale di guerra ai civili, fino a talune vicende del dopoguerra trascurate per lungo tempo dalla storiografia, come gli spostamenti di popolazioni generati nel corso della guerra dall’occupazione nazista, ma che hanno ridisegnato la carta etnica e linguistica d’Europa all’ombra della guerra fredda.
Un ruolo fondamentale in questo spostamento dell’asse dell’attenzione hanno svolto le testimonianze dei diretti protagonisti: la figura del testimone ha preso progressivamente piede, occupando la scena e assumendo un ruolo di primo piano nella narrazione storica. Basti pensare – come ricorda Annette Wieviorka in un libro, L’era del testimone, diventato ormai un classico – alle testimonianze dei sopravvissuti dei campi di sterminio, che, uscite dall’oblio grazie soprattutto al processo Eichmann, si sono progressivamente manifestate come un modello di ricostruzione della memoria che ha poi trasformato in profondità il modo stesso di narrare tutti gli eventi bellici.
Si tratta, in sintesi, di una ricerca che si interroga sui modi più adeguati per descrivere le grandi fratture, i momenti di crisi collettiva in cui cambiano repentinamente i modi di esistenza, e convincimenti consolidati si polverizzano con il venire meno delle narrazioni collettive alle quali ci si era affidati con relativa fiducia in anni di normalità, e il cui crollo mette i singoli di fronte a scelte fondamentali, senza il soccorso della mediazione delle istituzioni e della pubblica opinione. A questi fini, lo strumento letterario può rivelarsi particolarmente adatto e forse più sensibile del saggio storico, nel sondare le stratificazioni e le varianti mentali e culturali e nel descrivere la repentinità delle trasformazioni e dell’eterogeneità delle reazioni individuali: in sintesi, nel dare conto della dimensione della soggettività nei momenti di grave e profonda crisi.
I termini di questo raccordo tra ricostruzione storica e narrazione letteraria che si è cercato qui sommariamente di definire si possono ritrovare, in un felice e riuscito equilibrio, nella riedizione del bel romanzo La mina tedesca: il vero romanzo di Giaime Pintor che Carlo Ferrucci, saggista, poeta e traduttore, ha dedicato a Giaime Pintor, suo zio materno. Ricostruendo la storia delle ultime settimane di vita di Giaime – di cui ricorre quest’anno il centesimo anniversario della nascita – l’autore ripercorre contestualmente l’itinerario intellettuale e morale che conduce il giovane letterato, già affermato germanista e collaboratore di primo piano della casa editrice Einaudi, verso la scelta resistenziale e l’estremo sacrificio, motivata nella mai troppo letta ultima lettera al fratello Luigi, da un’altissima riflessione sui doveri morali e politici degli intellettuali e sulla cultura come impegno civile, che è diventata emblematica di un intero passaggio storico.
Nel romanzo, il percorso del protagonista si snoda in un contesto narrativo popolato di personaggi che, al di fuori di ogni stereotipo, si trovano a rappresentare i dilemmi e le incertezze di un momento storico nel quale è difficilissimo orientarsi, e nel quale la radicalità della crisi in essere se da un lato pone i singoli di fronte a scelta improcrastinabili (prendere il proprio posto “in un’organizzazione di combattimento”, scriverà Giaime al fratello) dall’altro si intreccia con le paure e il desiderio di fuga da una realtà che incombe minacciosamente sui destini individuali e collettivi.
Emblematici, a questo proposito, alcuni passaggi del libro. Tra gli altri, la descrizione del viaggio in treno da Roma verso Brindisi – dove Giaime si propone di congiungersi all’Esercito Regio, di cui è ufficiale – offre uno spaccato sui modi diversi di percepire la precarietà del momento: c’è il sottufficiale che avverte la vergogna della sconfitta e al tempo stesso la necessità di “mettere su” qualcosa per un riscatto che non può essere tale se non rende definitiva la rottura con il fascismo, ma anche con la monarchia; il borghese, attaccato all’illusione di una uscita indolore dell’Italia dal conflitto, incapace di cogliere la drammaticità e la pericolosità del momento, le donne del popolo che restano comunque attaccate all’idea della monarchia, se non del fascismo, perché la monarchia e Badoglio sono comunque quello che resta di un mondo noto, mentre dinanzi a loro si apre la voragine dell’imprevedibile; lo studente, il più disorientato di tutti, ma alla fine desideroso solo di riprendere la routine quotidiana con Elisabetta, la ricca fidanzata ebrea sfollata da Roma, che si abbandona all’illusione di una conclusione imminente e felice di una vicenda destinata invece a segnare drammaticamente la vita degli individui e di intere comunità.
Questo viaggio verso il Sud, all’interno di una zona grigia che però non è lo sfondo amorfo dell’Italia tagliata in due, ma si articola in mille differenti sfumature, fa da sfondo al viaggio interiore di Giaime Pintor, tra dubbi e certezze maturate nell’arco dei tre anni di guerra in una posizione singolare e indubbiamente privilegiata, come quella di ufficiale distaccato presso la missione militare italiana a Vichy, capitale del governo collaborazionista del maresciallo Petain (dove era stato destinato in seguito alla morte in un incidente aereo di suo zio, il generale Pietro Pintor): una condizione che gli aveva consentito di continuare a coltivare la sua vocazione letteraria e, in particolare, la collaborazione con la casa editrice Einaudi, e alla quale l’8 settembre e l’occupazione di Roma avevano bruscamente posto fine.
Proprio da questo evento ha inizio il romanzo di Carlo Ferrucci, che trova il giovane ufficiale a piazza Colonna, in attesa del comizio dei partiti antifascisti, che non avrà luogo, perché la fine della battaglia di Porta San Paolo, come gli spiega l’esponente comunista con cui si trova a dialogare, impone un adeguamento delle tattiche resistenziali alla nuova situazione di occupazione della città da parte dei tedeschi. Ritornando verso casa, Giaime si imbatte in un camion carico di soldati tedeschi, che lo scherniscono cantando una canzoncina antitaliana. La sua replica è implicita e silenziosa: recita tra sé dei versi di Rilke, il grande poeta tedesco che aveva recentemente tradotto per Einaudi e – immagina il narratore – le usa come pallottole contro la provocazione degli ex alleati, che in cuor suo ha già deciso di combattere. In questo breve episodio di fantasia, nel quale traspare anche il legame intellettuale che Pintor aveva stabilito con la cultura e la lingua tedesca, viene evocata anche una particolare idea del rapporto tra politica e cultura, tra coscienza civile e vocazione letteraria, che occupa tanta parte della lettera al fratello Luigi: la scelta è inequivoca e irreversibile, occorre mettere da parte le prerogative dell’uomo di cultura e combattere al fianco di chi intende riscattare l’Italia dal giogo nazifascista. E, di conseguenza, essere un “mediocre” partigiano (sono sempre parole della lettera) piuttosto che un bravo letterato che però volge le spalle al destino comune, è l’unica opzione possibile nel momento dato. Ma l’immaginazione letteraria, che raffigura il protagonista sulla strada di casa, mentre recita tra sé Rilke come risposta al dileggio dei soldati tedeschi, sintetizza in modo efficace un ulteriore significato della scelta resistenziale di un giovane intellettuale, scelta che ha molto a che fare non solo con la difesa della propria identità di uomo di cultura, ma anche con la difesa del posto della letteratura nella società, poiché nel momento storico dato solo l’azione può riscattarla dall’umiliante asservimento alle ragioni della guerra cui l’hanno costretta i regimi dell’Asse e restituirle quella libertà che le è propria.
Si tratta, dunque, di una visione lungimirante del rapporto tra l’impegno civile della cultura e la libertà dell’espressione artistica, al di fuori di qualsiasi codificazione esterna: un tema, peraltro che Giaime aveva già affrontato in uno scritto del 1940 (Un’antologia tedesca), nel quale aveva liquidato una antologia tedesca di “poeti” nazisti, sostenendo che “alla luce di una nostra nozione di poesia, queste cinquecento pagine sono bianche e nitide come i fogli di un calendario”.
Un altro spunto di riflessione suscitato dalla lettura del romanzo riguarda il dilemma, che certamente fu di Giaime, ma probabilmente anche di molti altri giovani sotto le armi, tra la consapevolezza della necessità di una rottura definitiva con il vecchio ordine, rappresentato dal re e da Badoglio, e l’esigenza di potere contare, nella lotta contro le potenze dell’Asse, su un minimo retroterra istituzionale, sia pure su un simulacro di ordinamento statale, come quello ricostituitosi in Puglia. Anche in questo caso, il romanzo affida questo interrogativo a un dialogo, questa volta tra Giaime e un vecchio amico del padre, un preside in pensione, che, dopo avere ascoltato le parole del suo interlocutore sulla necessità di una vera rivoluzione in grado di dare vita a un ordine più libero e più giusto, lo interroga sulla compatibilità tra questo ideale e la decisione di ricongiungersi ai resti dell’Esercito regio di stanza a Brindisi.
Il dilemma appare di difficile soluzione sul piano teorico, tanto più che, proprio a Brindisi, Giaime avrebbe concepito un lucido saggio di analisi della situazione (Il colpo di stato del 25 luglio) che si concludeva proprio esprimendo la convinzione che la crisi apertasi con la caduta di Mussolini avrebbe dovuto travolgere anche la monarchia per potere configurare una sbocco coerente alla lotta antifascista con la costruzione di un nuovo stato democratico. Anche alla luce di questo scritto, la decisione di abbandonare Roma ormai nelle mani dei nazisti e raggiungere Brindisi appare segnata da una forte contraddittorietà: nel romanzo, lo stesso protagonista fa un’ammissione in tal senso, nel dialogo con l’amico preside, e da questo confronto emerge la difficoltà, soprattutto per un intellettuale di estrazione borghese e sostanzialmente privo di una formazione politica, a prendere atto fino in fondo della vera novità della situazione, rappresentata dalla dissoluzione del vecchio Stato, la cui persistenza nelle province pugliesi era legata più che altro allo scopo di rassicurare quanti temevano un esito rivoluzionario della crisi in corso, gli Alleati in prima fila.
La liquidazione dell’illusione circa la possibilità che il risicato retroterra istituzionale costituito dal regno del Sud potesse rappresentare un punto di riferimento della guerra di Liberazione coincide dunque con la decisione di abbandonare il clima surreale della Brindisi monarchica (vanno ricordate a proposito le belle pagine del dialogo con l’amico/antagonista Edgardo Sogno, ossessionato dal timore di un esito rivoluzionario della lotta antifascista) e di aderire alla proposta degli emissari del Fronte nazionale, di disertare e raggiungere Napoli, da pochi giorni liberata dall’insurrezione popolare, per unirsi al corpo di volontari che si intendeva organizzare sotto il comando del generale Pavone. Gli eventi successivi sono noti: il reclutamento di volontari per la formazione di un corpo italiano di combattenti viene prima approvato e poi bloccato dagli alleati e da Badoglio, preoccupati per le conseguenze politiche, e Pintor a questo punto si addestra come volontario per una missione sotto l’egida del comando britannico: portare oltre le linee armi e istruzioni ai gruppi partigiani che si vanno formando alle spalle dei tedeschi. È la missione nella quale perderà la vita, il gesto nel quale si consuma un percorso di maturazione che la guerra aveva accelerato in modo imprevedibile.
La diserzione è dunque la rottura con l’equivoco monarchico ed è l’atto attraverso il quale l’ufficiale diventa partigiano, e formalizza una rottura che nel romanzo si esprime anche attraverso il confronto con un gruppo di giovani comunisti napoletani e con i monologhi interiori del protagonista, nei quali compaiono altri due nomi di disertori illustri, uno reale, il Carlo Pisacane di cui Pintor aveva curato per Einaudi l’edizione del Saggio su la rivoluzione (1942), e uno immaginario, il Frederic Henry protagonista di Addio alle armi, opera emblematica di quella letteratura americana in cui lo stesso Pintor, recensendo nel 1943 Americana, la nota antologia curata da Elio Vittorini, aveva riconosciuto una possibile patria intellettuale, distante dalla stagnante aria del regime moribondo.
In Doppio diario, pubblicato da Einaudi nel 1975, si legge una lapidaria annotazione: “l’azione è uscire dalla solitudine”. Non si trattava certo di solitudine umana, ché anzi la breve vita di Giaime Pintor fu densa di amicizie, amori e affetti familiari, ma della solitudine intellettuale e politica che sarebbe potuta scaturire da un atteggiamento di acquiescenza nei confronti del dramma che l’Italia stava attraversando. Senza l’azione, il mondo a suo tempo conosciuto e amato si sarebbe dissolto irreversibilmente e con esso le ragioni della letteratura coltivata con intensa passione: con il suo romanzo, Carlo Ferrucci restituisce a una lettura più piana, priva di retorica ma non di emozioni, l’esplorazione delle ragioni di una scelta estrema, che ha rappresentato un punto di riferimento politico e ideale essenziale per le generazioni che si sono succedute nel tempo, ma che ha pur sempre segnato la sorte di un ragazzo poco più che ventenne, innamorato della vita, delle donne e della poesia.
Pubblicato mercoledì 27 Novembre 2019
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