La partecipazione dei volontari partigiani alle formazioni regolari dell’esercito italiano operanti nella penisola dopo l’8 settembre 1943 è stata per lungo tempo considerata una pagina secondaria nella storia del movimento di Liberazione. Soprattutto, l’arruolamento di partigiani nell’esercito regolare per condurre a termine la lotta contro gli invasori tedeschi e contro i loro manutengoli fascisti non è stato adeguatamente valutato, in tutte le sue implicazioni etiche e politiche, come uno dei momenti della storia d’Italia nei quali il contributo del volontariato democratico è stato determinante per la fondazione o per la rinascita delle istituzioni, durante il Risorgimento così come nel biennio 1943-45, lungo una linea di continuità che giustifica, per questo aspetto, la pur contestata (e senza dubbio parziale) definizione della Resistenza come secondo Risorgimento.
Giunge quindi quanto mai opportuna la pubblicazione in volume, per iniziativa dell’Anpi e con il contributo del Ministero della Difesa, di una serie di testi raccolti sotto il titolo I volontari partigiani nel rinnovato esercito italiano (Viella, 2018), per la cura di Carlo Smuraglia, Presidente emerito dell’Anpi, che, oltre a introdurre e concludere il volume stesso, offre una meditata testimonianza sulla sua personale esperienza di volontario nel gruppo di combattimento “Cremona” dopo la partecipazione alla guerra partigiana.
Il volume si compone inoltre di due saggi di carattere generale, di Massimo Coltrinari (I percorsi di ricostruzione delle forze armate dopo l’8 settembre 1943) e di Roberta Mira (Dalla Resistenza all’esercito. Volontari partigiani nelle truppe regolari durante la campagna d’Italia); di due contributi di storia militare, di Nicolò Da Lio (La ricostruzione della divisione “Cremona”) e di Giovanni Cecini (La battaglia del Senio e la liberazione di Alfonsine) e tre scritti dedicati ai volontari umbri (Marco Venanzi, I volontari ternani nel gruppo di combattimento “Cremona”; Angelo Bitti, I volontari dell’area perugina; Alvaro Tacchini, I volontari dell’alta Umbria).
Proprio le diverse angolazioni dei contributi che compongono il volume inducono a una prima riflessione, sulla pluralità degli spunti offerti e sulla possibilità di coglierne le numerose implicazioni, in termini sia di approfondimento sia di apertura di nuovi ambiti di indagine, imprimendo un ulteriore impulso allo svolgimento di un lavoro di una ricerca quanto più possibile organico sulla ricostruzione dell’esercito italiano e sui caratteri della presenza della componente volontaria partigiana in seno alle formazioni regolari. In tale modo, si verrebbe ad arricchire di ulteriori elementi la visione della Resistenza come evento corale e multiforme, di cui da tempo l’Anpi si è fatta promotrice – come ricorda Carlo Smuraglia nell’introduzione – attraverso una serie di iniziative che hanno portato a riconsiderare vari aspetti del biennio 1943-1945, dal ruolo delle donne, alla partecipazione del Mezzogiorno al movimento di Liberazione, alle stragi nazifasciste come manifestazione estrema della guerra ai civili condotta dall’esercito hitleriano e dai suoi satelliti con una ferocia mai vista in precedenza.
Una prima questione di grande interesse, affrontata con diverse angolazioni nei vari contributi, riguarda la continuità dell’istituzione militare nella crisi determinatasi all’indomani dell’8 settembre 1943: tema, ovviamente, che è parte di quello, più generale, relativo alla dimensione del collasso istituzionale seguito alla resa agli Alleati. Con l’8 settembre, lo Stato italiano così come era nato nel 1861, viene meno nei suoi elementi costitutivi. Il fatto che alcune istituzioni sopravvivano alla catastrofe – sostenute, peraltro, da un soggetto esterno, gli Alleati, interessati a disporre di un interlocutore governativo che, ancorché ridotto ai minimi termini, fosse comunque garante dell’osservanza delle clausole dell’armistizio – non elimina il dato della disgregazione dell’ordinamento statale, che si concretizza nell’assenza di un governo (inteso come somma degli organi di vertice dello Stato sovrano) in grado di esercitare legittimamente il proprio potere di direzione nei confronti del popolo, senza interferenze esterne e in modo uniforme su tutto il territorio nazionale. Dopo l’8 settembre, mentre l’Italia è in gran parte occupata da eserciti stranieri, l’ambito territoriale entro il quale si esercita la giurisdizione del governo monarchico è ridotto ai minimi termini (anche se si estenderà gradualmente con la restituzione dei territori liberati da parte del Governo militare alleato), e il popolo è assoggettato a almeno tre governi (oltre al Regno del Sud, il governo fantoccio di Salò, espressione dell’occupante tedesco e in molte parti del territorio nazionale liberato, il Governo militare alleato). La valutazione circa la continuità dell’istituzione militare non può prescindere da questo quadro di riferimento: al quesito se si possa parlare di dissoluzione delle Forze Armate del Regno d’Italia all’indomani dell’armistizio (quesito posto, in particolare, e con risposte differenziate, nei saggi di Massimo Coltrinari, di Nicolò Da Lio e di Roberta Mira), si può cercare di rispondere solo a partire da un esame concreto di quello che avvenne dopo l’8 settembre, volto in primo luogo a comprendere se e in quale misura si sia conservata l’attribuzione fondamentale dell’istituzione militare, di esercitare, insieme ad altri apparati analoghi, il monopolio legittimo della forza, attraverso l’attuazione di direttive impartite lungo una linea di comando il cui vertice si colloca all’interno dell’ordinamento dello Stato (nel caso di specie, la corona), al riparo da interferenze esterne. Se affrontato da questo punto di vista, il fatto che le Forze Armate, anche dopo l’annuncio dell’armistizio, abbiano comunque conservato alcune unità in condizioni operative e che esse siano state la base su cui si è proceduto alla ricostruzione del regio esercito, è senza dubbio un elemento al quale rivolgere la necessaria attenzione, ma anche da inquadrare in un contesto più generale, che investe la dimensione globale della frattura istituzionale seguita alla sconfitta militare.
La ricerca sugli elementi di continuità e discontinuità nelle Forze Armate italiane lungo il crinale dell’8 settembre appare particolarmente utile per focalizzare il ruolo svolto dai volontari partigiani nelle formazioni regolari, e anche i limiti di esso: non c’è dubbio, infatti, che l’arruolamento di volontari – al di là della pluralità delle motivazioni che li spinsero a tale scelta (si leggano in proposito le osservazioni di Nicolò Da Lio e di Angelo Bitti e Roberta Mira) – abbia contribuito di per sé a sollevare la questione della democratizzazione dell’esercito, della sua apertura alle correnti ideali che avevano animato la guerra partigiana e, conseguentemente, del superamento dell’ordinamento militare sabaudo: non a caso, come ricordano quasi tutti i contributi, i Cln e i singoli partiti antifascisti (in particolare il Pci) si mobilitarono attivamente per favorire l’afflusso dei partigiani nelle formazioni regolari.
Non si trattò peraltro di un processo indolore: nel volume sono ricorrenti i riferimenti ad attriti, contrasti e veri e propri casi di insubordinazione, riconducibili tutti al conflitto di fondo – evocato sia nella testimonianza di Carlo Smuraglia sia nelle ricostruzione della vicenda dei volontari umbri di Angelo Bitti, Alvaro Tacchini e Marco Venanzi – tra l’intento dei vertici militari di ripristinare una struttura militare permeata dello stesso spirito autoritario, conservatore e misoneistico che aveva caratterizzato l’esercito regio, e la tensione verso il rinnovamento di chi, avendo conosciuto la diversa esperienza delle formazioni partigiane, era quasi spontaneamente portato a riprodurne gli elementi tipici nel diverso contesto ordinamentale: la politicizzazione, l’insofferenza verso gli aspetti più formali e burocratici della disciplina, l’idea che ogni posizione di comando dovesse essere fondata sul consenso dei subordinati e sull’accertato senso di responsabilità degli ufficiali e, inevitabilmente, la polemica antimonarchica, sintetizzata nell’episodio-simbolo dalle contestazioni del Luogotenente in visita al gruppo di combattimento “Cremona”.
Nell’immediato, l’impegno dei volontari ottenne risultati non trascurabili, superando le perplessità di comandanti non sempre del tutto chiusi nei confronti delle istanze di democratizzazione: così, nel “Cremona” viene autorizzata, nei momenti di riposo, un’ora politica; nascono le commissioni per la mensa, e nei reparti sono nominati dei responsabili, sul modello dei commissari politici delle formazioni partigiani, in grado di interloquire con gli ufficiali, ma anche veicoli efficaci di responsabilizzazione e di rafforzamento della disciplina.
Queste innovazioni, peraltro, si misurano anche con un ulteriore ordine di attriti, che si determinano soprattutto all’interno del gruppo di combattimento “Cremona”, la formazione maggiormente impiegata nelle operazioni belliche – insieme ai gruppi di combattimento “Legnano”, “Folgore” e “Friuli” – e dove si registrò in maggiore misura l’afflusso dei volontari. Con l’arrivo delle nuove reclute, infatti, si crearono non solo tensioni tra ufficiali e truppa, ma anche all’interno di quest’ultima, dove i militari “regolari”, logorati da una prolungata permanenza al fronte, guardavano con iniziale diffidenza ai nuovi arrivati, al loro desiderio di impegnarsi in prima persona, alla loro carica ideale, che ne faceva qualcosa di diverso, ma anche di pericoloso agli occhi dei veterani; la stanchezza di questi ultimi per un guerra che si protraeva ormai da quattro anni rifletteva peraltro uno stato d’animo di prostrazione diffuso nella società, espresso anche dagli esiti deludenti dei bandi di arruolamento emanati dal governo del Sud, osteggiati dalla popolazione, e che in Sicilia avevano dato luogo a vere e proprie ribellioni popolari, con il movimento “Non si parte”.
Dunque, la decisione di arruolarsi come volontario presentava risvolti politici e umani particolarmente complessi e contraddittori (e ancora largamente da indagare), sia dal punto di vista individuale, sia dal punto di vista dei contesti entro i quali si attuò (non c’è dubbio, infatti, che essa fosse più “naturale” nelle zone che avevano conosciuto la guerra partigiana). Si tocca qui un punto cruciale, sul quale si sofferma Carlo Smuraglia nelle sue conclusioni, relativo all’etica della scelta, così acutamente scavata da Claudio Pavone, e al percorso resistenziale come formazione, come maturazione civile e umana alla quale un’intera generazione fu precocemente portata da eventi eccezionali: per sondare questi processi, così densi di implicazioni di varia natura, i saggi contenuti nel volume, e in particolare quelli riguardanti il volontariato umbro, fanno ampiamente ricorso a fonti memorialistiche ed epistolari, un materiale senz’altro essenziale (e probabilmente ancora da scavare) per ricostruire i percorsi psicologici e umani, oltre che politici, di chi si trovò a vivere l’ultima fase della Liberazione nell’esercito regolare.
All’interno di questo stesso contesto si colloca un altro aspetto molto opportunamente messo in luce nei vari contributi, relativo alla presenza di orientamenti differenziati anche all’interno del corpo degli ufficiali : se in generale questi ultimi si mostrarono diffidenti verso le implicazioni politiche e organizzative derivanti dall’arruolamento di volontari partigiani, non mancarono, soprattutto tra gli ufficiali investiti di compiti operativi, segnali di una nuova consapevolezza, non solo della crisi definitiva di modelli organizzativi e ordinamentali che non avevano saputo evitare la disfatta, ma anche dell’impatto positivo (e imprevisto) prodotto dalla nuova situazione sulla disciplina e sull’efficienza delle formazioni. Così che, tra l’altro, si approfondivano le divergenze tra l’orientamento di parte degli ufficiali posti al comando dei raggruppamenti e i vertici dello Stato Maggiore, ricostituito con uomini gravemente e pesantemente compromessi con il passato regime. Valga per tutti il caso di Giovanni Messe, liberato dalla prigionia dagli Alleati e nominato capo di Stato Maggiore dell’esercito dopo l’8 settembre, che nel dopoguerra fu uno dei personaggi di spicco dell’eversione antidemocratica, prima di approdare alla Camera dei deputati, eletto nelle liste monarchiche.
Sotto questo aspetto, i numerosi spunti offerti dai contributo contenuti nel volume indicano ulteriori possibili linee di approfondimento, in particolare per quello che riguarda le biografie degli ufficiali, dallo Stato Maggiore fino ai comandi dei gruppi di combattimento, con una ricognizione che dovrebbe estendersi anche oltre i limiti cronologici del biennio 1943-1945; sempre su un piano più strettamente attinente alla storia militare, potrebbe rivelarsi molto utile un ulteriore approfondimento su un tema già presente nei saggi di Massimo Coltrinari, Nicolò Da Lio e Roberta Mira, relativo alla ricostruzione delle linee effettive di comando (e in questo contesto anche della posizione della 28° Brigata partigiana “Mario Gordini”, operante nel ravennate, al fianco del “Cremona”, agli ordini del tenente Arrigo Boldrini), considerato che la dipendenza gerarchica costituisce un indicatore essenziale per articolare un discorso compiuto sul rapporto tra il Comando Alleato, inizialmente diffidente e scettico sull’apporto italiano alle operazioni belliche, lo Stato Maggiore dell’Esercito italiano e le unità effettivamente operanti sul campo.
Il volume sui volontari italiani presenta, per i motivi fin qui indicati, il notevole pregio di coprire tutti gli ambiti di ricerca di maggiore interesse e, al tempo stesso, di fornire utili indicazioni su un percorso di indagine ancora da intraprendere, e che si inquadra perfettamente nell’impegno dell’Anpi di fare emergere episodi, protagonisti ed eventi della storia del movimento di Liberazione rimasti in ombra o comunque suscettibili di ulteriori scavi. Di certo, la presenza dei volontari partigiani nelle formazioni regolari dell’esercito pose più problemi di quanti ne risolse, a partire da quello, cruciale, della democratizzazione delle forze armate, rispetto alle quali si può senz’altro condividere il giudizio espresso in numerosi contributi del volume e così sintetizzato nelle conclusioni di Smuraglia: «In realtà, quanto alla ricostruzione “democratica” dell’Esercito Italiano ci sarebbe molto da discutere e da riflettere sugli effetti reali di quella volontà che aveva unito chi si arruolava e chi incoraggiava a farlo. Di quell’esperienza, narrata da alcuni testimoni e raccolta in diversi scritti e studi, non sembra siano rimaste molte tracce; ché anzi – poco dopo la fine della guerra – stavano già rinascendo gli antichi pregiudizi e le antiche tendenze autoritarie e burocratiche». Proprio perché quel processo subì precocemente una definitiva battuta d’arresto, la ricerca sulle forme specifiche che esso assunse, sui suoi effetti e sui suoi limiti, riveste un grande interesse storico e politico. Si pongono infatti interrogativi suscettibili di aprire altri campi di indagine, che investono l’intera vicenda della ricostruzione delle Forze Armate, della Pubblica sicurezza e dei servizi di intelligence nei primi anni della storia repubblicana, in un contesto politico fortemente polarizzato, nel quale l’azione delle forze politiche, e in particolare di quelle sulle quali ricadde la responsabilità del governo del Paese, risultò condizionata in modo determinante, soprattutto per quanto riguarda i temi della sicurezza e dell’ordine pubblico, dalla divisione bipolare del mondo. Per l’Italia, ciò significò la sostituzione del paradigma anticomunista all’impostazione antifascista, che aveva ispirato i lavori dell’Assemblea costituente e i primi passi della vita repubblicana, e, conseguentemente, il ritorno sulla scena di personaggi gravemente compromessi con il fascismo e posti in posizioni chiave alla testa di apparati tenuti al riparo, in ragione della loro funzione cruciale, da qualunque processo di democratizzazione.
Nel corso della prima legislatura repubblicana, l’azione degli apparati di sicurezza dello Stato, assecondata dalla continuità della legislazione fascista, seguì una linea di condotta estranea, spesso ostile e in molti casi contraria alla lettera e allo spirito della Costituzione repubblicana, ed è questa la matrice originaria dalla quale si generano, nel corso degli anni, tutte le deviazioni e le connivenze nei confronti dello stragismo, del terrorismo e delle trame eversive che hanno attraversato con andamento carsico l’intera storia della Repubblica. All’origine di queste vicende si situano gran parte dei temi affrontati nella ricerca promossa dall’Anpi: uno sguardo critico sul passato, dunque, può rivelarsi particolarmente proficuo per individuare nel concreto i meccanismi, i percorsi istituzionali e gli uomini attraverso i quali si attuò il congelamento dei precetti della Costituzione su temi cruciali come sicurezza e ordine pubblico, in forme tali da fare gravare per molti anni una pesante ipoteca sulla qualità democratica della vita civile nel nostro Paese, con effetti che, purtroppo, sono ben lungi dall’essersi esauriti.
Pubblicato giovedì 21 Giugno 2018
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