Esiste una distinzione, apparentemente labile, tra genio e genialità, in cui il secondo termine altro non è che una pallida proiezione del primo, assoluto e universale. E Andrea Pazienza, fumettista scomparso esattamente trent’anni fa, è stato e ha posseduto il genio. Non la sua riproduzione scontata, ma l’autentico e luminosissimo genio.
La fine prematura, aveva 32 anni, il tratto limpido e lineare, i colori vividi e quasi infantili hanno contribuito a edificare un solido idolo che fa di Pazienza il punto di riferimento, il metro di valutazione del fumetto italiano. Dolorosamente ed erroneamente, tutta la produzione fumettistica nazionale, soprattutto quella che evidenzia una certa sensibilità politica e sociale, un’ironia sferzante e un occhio fisso sulla vita quotidiana, deve – per una certa parte di critica e pubblico – sottostare al confronto. Inutile confronto, ça va sans dire, per svariate ragioni. Innanzitutto perché non sono molti gli autori in grado di competere con le doti artistiche di Pazienza, ma anche perché le sue opere sono figlie di un contesto storico dotato di un’eccentricità difficile da ritrovare nei decenni a venire: il Settantasette bolognese, di cui Pazienza è stato manifesto grafico e ha incarnato il più puro spirito di contestazione, trattando nelle sue opere il movimento non con superficialità, ma con leggerezza consapevole e provocatoria.
La “primavera” del 1977 fu tutt’altro che una guerra dei cent’anni: la si può definire, piuttosto, una blitzkrieg, una guerra lampo consumata in tempi e spazi ridotti, ma capace di incidere sul destino di un intero Paese non solo sul piano politico. A Bologna, l’irruenza culturale di quei mesi viene convogliata naturalmente nella Traumfabrik: la fabbrica dei sogni, la fucina creativa nel cui processo produttivo erano impiegate menti come Freak Antoni degli Skiantos e Pier Vittorio Tondelli, probabilmente la più autorevole (perché cauta e lucida) voce giunta dal marzo bolognese.
Andrea Pazienza inizia a frequentare il collettivo nei pressi di Piazza Maggiore, dove incontra alcune delle figure più determinanti per la sua formazione artistica, come il fumettista Filippo Scozzari e i componenti del gruppo punk Gaznevada. E Paz, il primo a sdoganare il ruolo di rockstar al di fuori del mondo musicale, con questi ultimi instaura un rapporto molto stretto, al punto da mescolare l’arte del disegno con la musica, producendo opere disegnate a sei o otto mani, massima espressione di quella propulsione collettiva, di quella volontà di fare insieme che caratterizzava il periodo.
Il collettivo diventa, quindi, per Paz, non la torre d’avorio da cui osservare con distacco, ma la lente di ingrandimento puntata sul luogo che, più di tutti, consacra il binomio indissolubile di avanguardia artistica e impegno politico. E sembra quasi partorito da uno sceneggiatore l’incontro – forse più uno scontro frontale – tra Paz e il Settantasette. Il suo esordio sulle pagine di Alterlinus (costola editoriale del noto Linus) avviene proprio sul numero 4, quello di aprile, in lavorazione tra fine febbraio e inizi marzo del 1977. La giovane promessa del fumetto italiano riesce a modificare le ultime tavole de Le straordinarie avventure di Pentothal, storia già capace di intercettare l’elettricità della lotta, per inserire dei riferimenti all’aria di fermento e tensione che percorreva Bologna in quei giorni. Tuttavia, questo non basta a Pazienza, che si dichiarerà poi mortificato per aver creduto di dover disegnare «uno sprazzo, era invece un inizio», come specificato nella nota a quella stessa pubblicazione. Ma Paz, quel cambiamento l’aveva intercettato, eccome. In un certo senso, si rivela profeta: non nell’accezione divinatoria e religiosa, ma nella radice etimologica di “colui che dice prima”, che sa vedere oltre, grazie a una propria lungimiranza e attenzione ai dettagli.
Del resto, Andrea Pazienza del dettaglio ha fatto il suo feticcio: basta sfogliare i suoi albi per rintracciare i segni di un’ossessione, bella e chiara, per la normalità, per quel disordine coerente che attraversa da parte a parte la vita, le scene quotidiane, i luoghi. Un lavandino che gocciola, la cenere che sta per cadere da una sigaretta accesa, i denti storti che sporgono da un sorriso beffardo, le imperfezioni cutanee di visi veri: questo è Pazienza. Lo è tuttora, a trent’anni dalla morte, per chi sfoglia le sue opere per la prima volta o per chi lo fa per l’ennesima: è sempre viva la capacità dissonante di sottolineare che è nei dettagli che continua a nascondersi un dio o un demone.
Pazienza resta fedele alla linea: la sua, si intende. Una linea disegnata che percorre il Settantasette e racconta la storia attraverso un particolare ingigantito all’inverosimile. La frammentazione politica, la crisi della sinistra e la spontanea nascita di collettivi e organizzazioni molto variegate poi etichettate come “autonomi” (senza fare “distinzioni poetiche”, come diceva Lucio Dalla, ad esempio, tra gruppi femministi, anarchici e studenteschi), diventano il pane quotidiano di Paz, e parte integrante della sua arte diventano anche le parole urlate o scritte sugli striscioni e sui muri dell’università di Bologna, indelebili e ripetute come mantra nella mente dei personaggi. Tra “Caviale in mensa” e “Qualcuno entrerà nel cesso e vi troverà W. Benjamin impiccato”, solo per citarne due, emerge un’irruenza linguistica che non può essere solo quella di uno slogan efficace: soprattutto qui, come in molte altre sequenze di Andrea Pazienza, le parole accumulano significato fino a esplodere.
È anche questo il caso di “Sarà una risata che vi seppellirà!”, motto sessantottino, già ereditato dagli anarchici francesi di fine Ottocento, di cui Paz si appropria per ammonire i lettori de Il Kossiga Furioso, un ciclo realizzato per una pubblicazione studentesca proprio qualche mese prima del debutto su Alterlinus. Materiale magmatico che descrive una quotidianità problematica e piegata alle strategie del terrore (le fitte “trame nere” ordite dalla Dc in quegli anni): Paz denuncia le infiltrazioni dei poliziotti nelle aule e nei cortei, e lo fa con l’incredibile forza dei due potentissimi strumenti che ha a disposizione, immagine e ironia.
In questo modo, Pazienza procede a grandi passi verso la realizzazione di Pentothal, opera coraggiosa per due ragioni. La prima, perché fotografa la società in quel momento, con la ricchezza di dettagli tipica della cronaca e, insieme, con l’attenzione di chi sa di avere tra le mani qualcosa di molto delicato. L’altra ragione la si trova, invece, voltando la fotografia che Paz scatta sulla Bologna di fine anni Settanta e che riesce a rivelare qualcosa di più: infatti, in un periodo di totale condivisione e abnegazione al movimento, Paz fa un passo indietro e antepone l’individualità al gruppo, lo stato d’animo ai cambiamenti della società. Così, quando tutto sembra essere collettivo e generazionale, quel sapersi riconoscere come esseri umani, imperfetti e soli, sopraffatti dai propri dolori privati anche nella folla rumorosa di un corteo è, con buone probabilità, il legame più genuino tra il fumettista e il Settantasette, nonché l’eredità più sovversiva arrivata ai lettori di Paz.
Letizia Annamaria Dabramo
Pubblicato venerdì 16 Novembre 2018
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