L’ultimo libro della scrittrice Michela Murgia ha suscitato interesse e critiche per la tesi volutamente provocatoria in cui sostiene il permanere del metodo fascista nell’azione politica e che può danneggiare il nostro sistema democratico, quasi a riprendere l’argomentata lezione di Umberto Eco “Il fascismo eterno”, tenuta nel 1995 dopo l’ascesa di Berlusconi. Eco indicava la continuità in Italia di una nebulosa fascista, individuando alcuni elementi caratterizzanti quali il culto della tradizione che sfocia nel culto dell’identità di chi è frustrato economicamente e culturalmente, il culto dell’azione per l’azione senza riflessione critica, la demonizzazione delle diversità, il nazionalismo e il populismo qualitativo fino alla creazione di un nuovo linguaggio con i talk show.
In “Istruzioni per diventare fascisti”, che ha come sottotitolo fascista è chi il fascista fa, Murgia non si ferma a denunciare atti di xenofobia e razzismo, ma propone la lettura dei comportamenti dei politici e della gente comune secondo la chiave interpretativa del fascismo. Non considera una categoria storica confinata nel passato, come dicono molti suoi critici, storici e giornalisti, ma un metodo che ancora contagia la nostra società democratica. L’intenzione dichiarata della scrittrice è di esercitare la funzione dell’intellettuale che fornisce al pubblico dei lettori gli strumenti per decodificare ciò che sta avvenendo, spesso mistificato da posizioni ideologiche, da fake news che diventano verosimili e poi vere, da comportamenti istintivi che costruiscono opinioni diffuse.
Rileva una ripresa di una visione di delega autoritaria a un capo, vedi Trump in USA o Bolsonaro in Brasile, ma anche Salvini in Italia, che conduce alla Khakistocrazia (dal greco, potere cattivo), caratterizzante alcuni regimi nel mondo, cioè un governo sotto il controllo dei cittadini peggiori di un Paese.
La democrazia, scrive Murgia, è “una fatica immane”, per cui può essere più agevole prendere la scorciatoia di avere un capo (non un leader democratico), che comanda senza tenere in considerazione il dissenso, rapido nell’azione al fine di rendere simile a sé anche l’elettorato che lo applaude. Nel costruire l’obbedienza al capo i social media svolgono un ruolo molto utile con messaggi semplici, senza intermediari e senza domande. È il capo a decidere l’argomento su cui far discutere la gente che delega a lui le scelte, mentre la peculiarità del sistema democratico sta nel potere dei cittadini di tenersi informati e prendere decisioni.
Nel libro di Matteo Pucciarelli “Anatomia di un populista”, Luca Merici, che cura il sistema di comunicazione di Matteo Salvini, spiega che, con un algoritmo, analizza in modo continuo e scientifico migliaia e migliaia di post e di tweet e quale tipo di persone ha interagito. Quindi lo staff, che lavora 24 ore, prepara messaggi e parole chiave su Facebook (il social più popolare e diffuso), che consentono a Salvini di apparire a volte cattivissimo o cattivo e qualche volta buono. Gli obiettivi dichiarati sono quelli di intervenire per primi sulla notizia del giorno, di polarizzare la discussione intorno a Salvini o antiSalvini, di lanciare messaggi forti estraendo dall’opinione pubblica le emozioni negative, che sono il motore della sua popolarità politica. Dallo stesso staff il sistema è chiamato La Bestia, per la cinica ferocia a cui è improntato.
Secondo Murgia è, infatti, necessario al metodo fascista costruire un nemico, che non è mai rispettabile e che va de-umanizzato con definizioni fortemente negative per poterlo combattere meglio. Il nemico è sempre il colpevole dei misfatti che accadono, mentre i seguaci del capo sono tutti brava gente, è sempre minaccioso, mentre i democratici, che legittimano le differenze e il dissenso degli avversari (non nemici, ma portatori di opinioni diverse dalle proprie), sono ridicolizzati come buonisti conniventi con “il nemico”. In effetti, i democratici, sostiene provocatoriamente l’autrice, “desiderano con tutte le loro forze pensare che il fascismo non esista, che sia un fenomeno storico sorpassato e che non ci sia alcuna possibilità che si ripresenti”, ma si sbagliano.
L’altro obiettivo cardine è convincere che i migranti (neri e musulmani) vogliano cambiare la nostra cultura e la nostra identità, oltre che rubarci il lavoro, quindi che siano una minaccia culturale da percepire come un pericolo di disordini soprattutto da parte degli strati più fragili della popolazione. Così il fascismo si presenta come la politica del buon senso, che rimette le cose a posto riguardo alla famiglia, al ruolo della donna, ai diversi, agli stranieri. Basta sentire le dichiarazioni di Salvini sul decreto sicurezza e immigrazione. Quella propaganda politica si basa, infatti, sull’alimentare la percezione di fatti e situazioni, che può essere molto diversa dalla realtà dei numeri e delle statistiche, ma che riesce ad accrescere in modo irrazionale le paure e le insicurezze.
Un altro atteggiamento fascista, al contrario di quello democratico, è di non ha paura di parlare e di usare la violenza, anche quella intimidatoria, contro “il nemico”, dal possesso delle armi all’espulsione alla repressione. In modo molto diverso dal concetto democratico di popolarità, il fascismo con una politica populista alimenta la fiducia nel capo e, in specifico riconosce a tutti i ceti sociali la liceità degli interessi individuali privati.
L’altro grande strumento del fascismo, secondo Murgia, è quello di inquinare la memoria del passato e la storia, di far dimenticare le date fondamentali della democrazia italiana come il 25 aprile e il 2 giugno, quindi, di interrompere la narrazione democratica della storia a cominciare dalla scuola. In tal modo ci si libera anche dal senso di responsabilità degli avvenimenti storici, che, invece, per i democratici si protrae anche nel futuro. Così il capo si legittima, riscrivendo una sua storia e una sua memoria. Murgia, nelle conclusioni, richiama i democratici a riconoscere il metodo fascista che si sta instaurando, per non essere sopraffatti.
Il libro, che ha la struttura del pamphlet, agile ma denso di contenuti, mi ha fatto ricordare l’assunto del libro della filosofia tedesca ebrea Hannah Arendt, “La banalità del male”, scritto dopo aver assistito a Gerusalemme, nel 1961, al processo contro Eichmann per il genocidio ebraico, che si concluse con la condanna a morte del criminale di guerra. Arendt descrisse l’organizzatore delle deportazioni di massa degli ebrei come un uomo mediocre, che nel processo procedeva per frasi fatte senza esprimere una consapevolezza critica del suo agire, e che, anzi, giustificava come imprescindibile l’obbedienza militare agli ordini perversi. Tale mancanza di senso di responsabilità morale fece dire alla filosofa che il male non si presenta mai come radicale, ma come banale, come una successione di singoli atti che sembrano senza importanza e che invece, deprivati del pensiero critico, sono all’origine di azioni disumane. E trasse la conclusione che, quando “il pensiero cerca di raggiungere la profondità, di andare alle radici, nel momento in cui cerca il male, è frustrato perché non trova nulla. Questa è la sua ‘banalità’. Solo il bene è profondo e può essere radicale”.
Per sconfiggere la “banalità del male” continuiamo a pensare, a ricordare e a difendere la convivenza democratica.
Laurana Lajolo, docente e scrittrice
Pubblicato venerdì 16 Novembre 2018
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