Ho avuto l’opportunità di leggere questo lungo racconto di vita man mano che le pagine si accumulavano, faticosamente, dopo un certosino lavoro che l’autrice ha dedicato alla consultazione di archivi e delle carte personali, così come alle richieste di approfondimenti a tante compagne e compagni di viaggio. Un lavoro condotto con la tempra della storica, e insieme con l’inevitabile, talvolta doloroso scavo nella dimensione soggettiva.
La Politica è donna è la storia personale, e insieme tutta politica, di una ragazza che intraprende fin da giovanissima un percorso di emancipazione, soggettivo e collettivo, dapprima con l’Udi, poi in varie formazioni della sinistra.
È una storia che riguarda tutte, tutti. Attraversa uno spaccato della società italiana che dagli anni Cinquanta, quando sono ancora aperte le ferite della guerra, sulla spinta del riscatto dato dalla Resistenza e dell’attività prorompente delle organizzazioni di massa percorre un cambiamento rapido e di non sempre facile lettura.
Partita dal suo paese non ancora diciottenne per la scuola dell’Udi di Villa Irma Bandiera, con la sola licenza elementare e un apprendistato da sarta, suo probabile destino, Tommasina imparerà ogni volta daccapo, con tenacia e curiosità: sarà dirigente dell’Udi, funzionaria del Psiup, componente del consiglio di amministrazione di un grande ospedale, sindacalista, consigliera comunale.
E ancora: ideatrice e organizzatrice di un progetto complicato e bellissimo, Bambini mediatori di pace, che nel primo decennio del Duemila coinvolgerà due Comuni italiani, uno israeliano e uno palestinese nel tentativo di superare conflitti e diffidenze per gettare i semi di un percorso di pace. E sarà tante altre cose ancora.
Tutto questo senza mai perdere di vista almeno due punti fondamentali. Primo, tenere presente da dove si viene (nata in una famiglia di condizioni economiche modeste nella campagna delle Crete senesi, Tommasina Materozzi eredita la passione per la politica dal padre socialista, e da lui viene incoraggiata ad accettare i primi incarichi e le prime responsabilità); secondo, la necessità di collegare alle istanze politiche generali, mantenendo dai partiti la necessaria autonomia, l’enorme questione dell’emancipazione delle donne, e successivamente le spinte per la liberazione e la scoperta della soggettività portate alla ribalta dal movimento femminista.
Nel libro, un passaggio sull’VIII congresso nazionale Udi del 1968 mi pare illuminante a proposito di questo secondo punto. L’autrice riporta le parole con cui Marisa Rodano esorta le giovani coinvolte nel movimento studentesco a “indossare l’abito del proprio sesso”, a non perdere di vista cioè, accanto allo slancio rivoluzionario per la trasformazione della società, la consapevolezza dell’oppressione della condizione femminile.
«C’è un passo della relazione di Marisa Rodano – scrive l’autrice – che mi colpisce in modo particolare: “Se la possibilità di esprimere un movimento autonomo specifico e tuttavia di portata politica generale esiste per la massa studentesca che si trova in sostanza solo transitoriamente in conflitto con l’assetto sociale, questa possibilità esiste doppiamente per le masse femminili nei confronti delle quali il carattere oppressivo, autoritaristico e discriminatorio dell’assetto sociale è permanente”. E dichiara: “Se le giovani che hanno abbracciato gli ideali di una trasformazione rivoluzionaria della società non vogliono divenire una élite distaccata dalle masse, ma una vera avanguardia, esse non possono perdere il contatto con la dolorosa realtà delle contadine, delle lavoranti a domicilio, della grande massa delle casalinghe del nostro Paese, delle donne delle borgate e del Mezzogiorno diseredato”».
Testimonia ancora Materozzi: «Rodano continua ricordando il gesto di John Carlos, l’atleta nero, medaglia di bronzo alle Olimpiadi del Messico, che il 16 ottobre 1968, al momento della premiazione e dell’inno americano aveva protestato abbassando la testa e alzando il pugno chiuso nel guanto nero e poi, indossati gli abiti della gente africana, era andato a sedersi in mezzo a loro. Marisa – rammenta l’autrice – rivolge un appello alle studentesse: “amiche studentesse, indossate anche voi l’abito del vostro sesso, assumete su di voi con la lucidità che vi viene dalla coscienza rivoluzionaria la condizione femminile, dedicatevi al compito di portare alle donne la consapevolezza dell’oppressione, di aiutarle a organizzarsi, a lottare, a contare per cambiare se stesse e la società”. L’appello di Marisa mi colpisce in modo particolare. È prorompente e audace».
Sul primo punto invece, sul mantenere solida la coscienza della propria origine, mi sembra illuminante una pagina in cui Tommasina Materozzi ricorda Remo Galli, sindaco di Monticiano negli anni Sessanta, che quando si recava a Siena faceva la spesa per le donne che nel loro paese non trovavano il filo di mulinè o altri articoli di cui avevano bisogno. L’immagine è evocata in un passaggio in cui si parla del fallimento, anni dopo, del mandato di una sindaca di quel Comune (fallimento indotto dalla sua stessa maggioranza), e della cattiva politica maschilista che ancora oggi, a sinistra, fa fatica a esprimere nomine femminili.
«Nel 2012 tornerà una sindaca, Sandra Becucci. Crede nei diritti delle donne e nel processo di emancipazione. Nel suo impegno per le mille cose che una amministrazione richiede, recupera la bandiera che le donne dell’Udi di Monticiano avevano realizzato negli anni 50 con tanti pezzettini di stoffa colorata, ricamandoci sopra il proprio nome anche con il filo muliné. Era stata conservata in un cassetto da Maria Fattorini. Gliela aveva consegnata la suocera, che era stata una donna molto impegnata nell’Udi, perché la tenesse con cura. Era il simbolo della lotta alle ingiustizie e alla sopraffazione. Era un modo per dire noi ci siamo. Sandra, a cui era stata consegnata da Maria, espose la bandiera a memoria di quelle donne nella sala del Consiglio comunale. Non lo so, ma mi fa piacere pensare che lo abbia fatto anche per riscattare Anna Maria Guerrieri e Maria Assunta Gregori».
Il viaggio che si accinge a fare chi leggerà questo libro, salendo con una ragazza non ancora diciottenne sul treno che da Asciano parte alla conquista della politica e di sé, è un viaggio che virtualmente non finisce, come non si arresta la storia del movimento delle donne.
Ed è un viaggio in cui non si è mai da soli. Ci sono le donne delle campagne, le attiviste dei circoli Udi, quelle della politica nazionale, delle associazioni e dei partiti, le intellettuali, le partigiane, ci sono le femministe, le donne delle istituzioni, le scettiche, quelle che non vedono le disuguaglianze salvo poi ricredersi dopo aver accettato di rifletterci, ci sono le compagne di partito, ci sono attrici, poete, avvocate, insegnanti. Ci sono anche molti uomini, quelli che avvertono il fastidio di una intromissione nel loro mondo, e quelli che invece condividono il viaggio.
La conclusione, provvisoria, riporta all’inizio, in una circolarità che davvero suggerisce il movimento continuo. Il libro finisce con un capitolo sull’attività dell’Archivio dell’Udi, le sue carte preziose, e il lavoro che da anni porta avanti non solo per la conservazione della memoria storica, ma per combattere oggi stereotipi e disuguaglianze. Forse, in fondo, per offrire un biglietto del treno a una ragazza di adesso, perché il viaggio possa continuare.
Silvia Folchi, presidente comitato provinciale Anpi Siena
Pubblicato sabato 19 Giugno 2021
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