I Quaderni del Circolo Rosselli hanno dedicato nel 2020 due numeri monografici ad altrettante figure di grande rilievo per la storia dell’Italia repubblicana: Paolo Barile e Loris Fortuna. Due personaggi certamente tra loro molto diversi: costituzionalista, studioso e avvocato di grande prestigio il primo, prestato alla politica in tarda età quando, su sollecitazione dell’amico Carlo Azeglio Ciampi, entrò a fare parte del suo governo nel delicato incarico di ministro per i rapporti con il Parlamento; influente uomo politico il secondo, eletto più volte alla Camera dei deputati nelle liste del Partito socialista, noto soprattutto per le sue battaglie civili e per avere dato il suo nome, insieme a quello del liberale Baslini, alla legge che nel 1970 introdusse il divorzio nel nostro ordinamento, avviando quel serrato confronto che condusse, nel maggio 1974, al primo referendum della storia dell’Italia repubblicana e, con esso, all’inizio del lento declino dell’egemonia del partito cattolico sulla società italiana.
Due storie personali diverse, dunque, ma accomunate da una eguale passione civile, anche se declinata in modalità differenti, nonché da quella che si può senz’altro definire la comune matrice di un impegno pubblico mai venuto meno, ovvero la partecipazione alla Resistenza. Paolo Barile, lo ricorda Marco Cannone nell’ampio e documentato saggio che dedica alla figura del giurista fiorentino, aderì alla Resistenza subito dopo l’8 settembre, spostandosi da Trieste, dove prestava servizio come magistrato militare (prima della guerra aveva vinto il concorso in magistratura collocandosi al primo posto della graduatoria), a Firenze, per ricongiungersi con i compagni del Partito d’Azione, al quale aveva aderito sin dalla fondazione, nel 1942. Nell’ambito del Comitato toscano di Liberazione nazionale che guidò la lotta armata contro i nazifascisti, ricoprì importanti responsabilità come rappresentante del Partito nel comitato militare, e in tale veste fu arrestato e torturato dalla polizia fascista, scampando poi miracolosamente alla fucilazione. Scarcerato, il giovane magistrato prese nuovamente posto nelle file della Resistenza e partecipò all’insurrezione di Firenze e alla liberazione della città ritornando, dopo l’insediamento del governo militare alleato, alla professione di magistrato.
Era il tempo della rinascita democratica e della ricostruzione del Paese, e Paolo Barile, allievo e amico di Piero Calamandrei, insieme a un gruppo di giovani e giovanissimi studiosi (poi destinati a occupare un posto di primo piano in quella che a giusto titolo è stata chiamata la scuola giuridica fiorentina), seguì con attenzione e passione il processo costituente: forse più di altri giuristi della sua epoca, si può affermare che Paolo Barile collocò la Costituzione al vertice della sua riflessione e della sua elaborazione teorica, così come della sua attività di avvocato, nella quale trattò le singole controversie alla luce di una linea di condotta coerente con le convinzioni maturate sul piano della dottrina.
Sin dai primi lavori, emerse l’interesse per quella che sarebbe stata la fisionomia del nuovo ordinamento costituzionale: in Orientamenti per la Costituzione, apparso nel 1945 e scritto su sollecitazione di Piero Calamandrei, sono enunciati alcuni capisaldi che rimarranno costanti nel pensiero del giurista fiorentino, sul carattere rigido della Costituzione futura e sulla necessità che esso venisse garantito da un tribunale costituzionale, sul divieto del mandato imperativo a tutela del libero esercizio del mandato parlamentare, sul bicameralismo e sul regime parlamentare fondato sul rapporto fiduciario tra le Camere e l’Esecutivo (per quest’ultimo aspetto, peraltro, Barile si differenziò dal maestro, che propendeva per un sistema presidenziale). A tre anni dal varo della Costituzione, appare un altro saggio fondamentale, La Costituzione come norma giuridica dove viene affrontata una questione cruciale, al crocevia tra teoria politica e diritto, riguardante la natura stessa della Carta fondamentale: se cioè si trattasse di un insieme di principi programmatici, privi dei caratteri di imperatività propri della legge, e rimessi, per la loro attuazione, alla discrezionalità del legislatore ordinario, o di una vera e propria norma giuridica, immediatamente operante nell’ordinamento e suscettibile di intervenire sul complesso di rapporti civili, politici e sociali.
Barile sceglie senza esitazione la seconda strada e già nel saggio del 1953 dà una risposta netta, come traspare sin dal titolo: la Costituzione è norma giuridica, e quindi precetto idoneo a essere immediatamente applicato, vincolante per il legislatore e parametro di legittimità dell’intero ordinamento. Veniva anticipato così l’indirizzo espresso pochi anni dopo dalla Corte costituzionale che, già nella sua prima sentenza, aveva confutato la distinzione – all’epoca molto diffusa nelle cultura giuspubblicistica – tra norme precettive e norme programmatiche della Costituzione, per poi sostenere il pieno assoggettamento al giudizio di legittimità costituzionale anche delle norme precedenti la Costituzione (e quindi, in larga parte, dell’ordinamento fascista). Non sorprende, quindi, che lo studio della Corte costituzionale, secondo una visione dinamica della sua funzione di garanzia, abbia costituito uno dei motivi fondamentali della successiva riflessione di Barile (Corte costituzionale, organo sovrano, 1957) e la premessa per la formulazione della tesi che al giudice delle leggi facesse capo la titolarità di una potestà di indirizzo politico costituzionale, distinto dall’indirizzo di governo affidato agli organi rappresentativi e ordinato al fine di assicurare che determinate scelte e determinati comportamenti delle istituzioni rappresentative si svolgessero conformemente al dettato costituzionale ed entro i suoi limiti. In tale contesto viene inquadrata anche la figura del Presidente della Repubblica (I poteri del Presidente della Repubblica, 1958), che il giurista fiorentino sottrae alla dimensione notarile che taluno, attualizzando le teorie ottocentesche del potere neutro, voleva attribuirgli, per sottolineare, anche in questo caso, la complessità dell’organo posto al vertice della Repubblica, supremo moderatore della vita pubblica, e come tale anche egli titolare della funzione di indirizzo politico costituzionale. Enunciata negli anni 60, questa tesi sulla funzione presidenziale ha mostrato la sua vitalità proprio in anni più recenti, quando in più occasioni il Presidente ha esercitato i suoi numerosi poteri, incluso quello di moral suasion, per riportare entro il perimetro della Costituzione quei momenti di frizione nei quali si manifestavano significative difficoltà nel funzionamento delle istituzioni rappresentative e il rischio di un corto circuito tra le funzioni di indirizzo politico e le funzioni di garanzia.
L’elaborazione sul tema dell’indirizzo politico costituzionale rinvia a un altro elemento portante del pensiero di Paolo Barile, quello dell’attuazione della Costituzione, affrontato per la prima volta in un saggio del 1957 di poco successivo al noto scritto del maestro Piero Calamandrei sul medesimo tema, pubblicato nel 1955, un anno prima della morte. Barile, partendo dal presupposto del carattere normativo della Costituzione, prendeva atto del ritardo con cui il legislatore ordinario impediva di fatto il completamento dell’ordinamento voluto dal costituente, indicando puntualmente tutte le inadempienze dovute a quello che Piero Calamandrei aveva definito come “l’ostruzionismo della maggioranza”, e denunciandolo come uno dei potenziali fattori di instabilità politica di un sistema istituzionale concepito come un insieme equilibrato, che avrebbe potuto funzionare a pieno solo se tutte le sue parti fossero state ugualmente messe in condizione di operare.
Secondo Barile, il ritardo nell’attuazione della Costituzione risultava pregiudizievole non solo alla funzionalità delle istituzioni, ma anche ai fini della effettività del complesso dei diritti che la Costituzione riconosceva ai soggetti privati: su questo tema, sin dal saggio del 1953, Il soggetto privato nella Costituzione, si sarebbe sviluppato un altro filone di pensiero che peraltro riprendeva il primo scritto dell’allora giovane magistrato, apparso sulla rivista di Piero Calamandrei Il Ponte e dedicato alla tortura (Il ritorno della tortura): una dolente riflessione, a ridosso della conclusione della guerra, sul baratro in cui il nazifascismo aveva spinto la civiltà e sulla disumanizzazione di una guerra feroce che aveva coinvolto non solo gli eserciti combattenti ma tutta la società civile.
Coerentemente con la sua visione della Costituzione norma “vivente”, “che si sviluppa nel concreto evolversi della società che in essa si riconosce e che il giurista è chiamato a interpretare come una testimonianza attiva” (come scrive Stefano Grassi nel testo introduttivo), Barile parte dal principio di presunzione della massima espansione delle libertà costituzionali per elaborare una visione evolutiva dei diritti, soprattutto laddove essi richiedono un intervento del legislatore che conferisca loro piena effettività, come nel caso dei diritti sociali. In base a questo approccio, è nella sfera dei diritti della persona che la concezione evolutiva del dettato costituzionale manifesta la sua potenzialità creativa: negli anni 70, le tensioni sociali, i conflitti che ne derivano, il protagonismo di nuove forme di soggettività sollecitano l’elaborazione di Barile in direzione delle nuove frontiere del diritto nella sfera della sessualità, della tutela della riservatezza, e, su un altro versante, della tutela dell’ambiente e del pluralismo dell’informazione e, negli anni 80, lo spingono a occuparsi, pionieristicamente, dei cosiddetti “diritti di terza generazione” che scaturiscono dall’evoluzione tecnologica e dall’affermarsi della società dell’informazione, oltre che dai mutamenti nel sistema delle relazioni sociali e dai nuovi equilibri internazionali, dalla caduta del muro di Berlino all’intensificazione dei flussi migratori.
Come ricorda Marco Cannone, questo complesso lavoro di elaborazione teorica avrebbe trovato un articolato sbocco nell’esercizio dell’avvocatura e, in tarda età, nella attività politica svolta come ministro per i rapporti con il Parlamento nel Governo Ciampi: da un osservatorio particolarmente importante – come ricorda Valdo Spini, che gli fu collega di governo come ministro dell’ambiente – Barile continuò a svolgere la sua riflessione sulle questioni che gli erano più care, prestando una particolare attenzione al tema delle riforme costituzionali che egli concepì sempre in termini di perfezionamento del disegno del 1948, ricusando qualsiasi ipotesi di stravolgimento di esso, ma al tempo stesso mostrandosi consapevole del momento di transizione che il Paese stava attraversando.
Nella fase più complessa, segnata dal passaggio a un sistema elettorale maggioritario caratterizzato dall’elezione del 75 per cento dei deputati in collegi uninominali al primo turno, secondo il modello inglese, il giurista fiorentino, proporzionalista nel periodo della Costituente, non nascose la sua preferenza per il sistema maggioritario a doppio turno, del tipo di quello vigente in Francia, ritenendo che esso avrebbe garantito un migliore equilibrio tra rappresentatività e governabilità, senza il paventato sacrificio della prima alla seconda. Spini ricorda altresì che, dopo la vittoria della coalizione di centro destra guidata da Silvio Berlusconi nelle elezioni politiche del 1994, nelle more della costituzione del nuovo esecutivo, Barile fu oratore ufficiale del Governo, rimasto in carica per il disbrigo degli affari correnti, in occasione del 25 aprile: un modo simbolico di concludere una esperienza di governo ricollegandosi idealmente alla matrice resistenziale dell’ordinamento costituzionale, allo studio del quale aveva dedicato la sua intelligenza e la sua passione di ricercatore.
La riflessione di Paolo Barile sul carattere espansivo dei diritti di libertà nel contesto di una lettura dinamica della Costituzione può essere assunta come punto ideale di congiunzione con l’azione politica di Loris Fortuna – alla cui attività parlamentare i Quaderni del Circolo Rosselli dedicano un numero monografico – che di quei diritti si fece alfiere sul finire degli anni 60, conducendo lunghe e spesso vittoriose battaglia parlamentari, a partire dalla legge sul divorzio, che porta il suo nome oltre a quello del liberale Antonio Baslini.
Come ricorda Tiziano Sguazzero in una informata nota biografica, Loris Fortuna si arruolò giovanissimo nella Resistenza friulana nelle file del Battaglione studenti, una formazione autonoma così denominata per l’ampia partecipazione di studenti medi e universitari; arrestato dai nazifascisti e deportato in Germania, nel dopoguerra, seguendo le orme del padre Mario, si iscrisse al Partito comunista, da cui sarebbe uscito nel 1956, in dissenso con la posizione assunta dal partito sull’invasione sovietica dell’Ungheria, per iscriversi al Psi, militando prima nella corrente di sinistra e poi avvicinandosi alle posizioni autonomiste di Nenni. Entrò alla Camera nel 1963, eletto nella circoscrizione di Udine-Belluno-Gorizia e fu costantemente rieletto nelle successive legislature. Ministro per il coordinamento della protezione civile nel governo Fanfani, fu poi ministro per il coordinamento delle politiche comunitarie nel Governo Craxi, dal 1983 fino al 1985, anno della sua morte.
Sin dai primi anni della sua attività parlamentare, il deputato friulano fu consapevole della centralità di un impegno per i diritti civili nel contesto di una società attraversata da un profondo processo di cambiamento e di modernizzazione, ponendosi, per questo aspetto, in controtendenza rispetto agli orientamenti dominanti nella politica italiana – ricorda Valdo Spini nella premessa alla raccolta dei discorsi – nella quale il confronto tra i grandi partiti di massa si andava svolgendo soprattutto sui temi sociali ed economici, mentre le questioni legate ai diritti civili erano rimaste ai margini del discorso pubblico, malgrado l’arretratezza dell’ordinamento, regolato, in questo ambito, da norme risalenti perlopiù alla legislazione fascista.
Si trattava peraltro di una situazione che affondava le sue radici nell’immediato dopoguerra, quando nei diversi schieramenti politici, sia di maggioranza che di opposizione, era prevalsa l’opinione che l’Italia avrebbe potuto rimediare ai disastri della guerra solo in un periodo di tempo molto lungo, durante il quale sarebbe rimasta in condizioni economiche di grande arretratezza e avrebbe occupato una posizione marginale nei mercati mondiali: da questo convincimento era derivata anche l’idea che, nel contesto socio-economico dato, difficilmente sarebbe stato possibile scalfire il modello familiare gerarchico e patriarcale e il suo sistema di valori tradizionali sui quali, peraltro, si fondava in larga misura l’egemonia del partito cattolico, ma che i partiti di sinistra, e in particolare il Pci, erano inclini a non mettere in discussione frontalmente.
Nell’arco di un decennio i fatti avevano preso una piega molto diversa e, a partire dalla seconda metà degli anni 50, una stagione imprevista di crescita, il “miracolo economico”, aveva smentito le previsioni di un lungo periodo di stagnazione e marginalità del sistema economico italiano, mettendo in moto nella società una diffusa domanda di modernizzazione, di partecipazione e di rinnovamento anche nell’etica e nel costume, alla quale il sistema politico e le istituzioni risposero con ritardi e contraddizioni, spesso irrisolte, che si manifestarono anche nell’azione dei governi di centro sinistra, in una costante dialettica tra tensioni riformatrici e resistenze conservatrici, spesso con l’affermazione di queste ultime, mentre, sul finire degli anni 60, le istanze di partecipazione e del profondo mutamento di qualità della vita democratica andavano prendendo corpo nella grande mobilitazione sociale dei giovani, dei lavoratori e delle donne.
In questo contesto, nella riflessione e nell’azione politica di Loris Fortuna – delle quali dà ampiamente e puntualmente conto il saggio introduttivo di Michele Mioni – l’iniziativa sui temi “caldi” dei diritti civili diviene un elemento di sintesi e di composizione delle domande di partecipazione di e modernizzazione emergenti dalla società civile, affiancandosi ai temi rivendicativi tradizionali ma al tempo stesso differenziandosene, per l’“aspetto umano” esplicitamente richiamato dal deputato friulano nell’intervento alla Camera del 25 novembre 1969, a rimarcare il carattere laico e libertario della battaglia per il divorzio (nella quale si realizzò anche la convergenza con il Partito radicale, al quale Fortuna stesso si iscrisse, pur mantenendo la tessera socialista), ma anche il legame di quest’ultima con le grandi trasformazioni politiche di quel momento. La data dell’intervento parlamentare di Fortuna, in questo caso, è emblematica: 17 giorni più tardi, il 12 dicembre esploderanno le bombe di Piazza Fontana e, pochi giorni dopo, il 21 dicembre, la stipula del contratto collettivo di lavoro dei metalmeccanici, in un’Italia smarrita e ancora investita dall’eco delle bombe di Milano e Roma, concluderà la stagione di lotte sindacali e studentesche dell’autunno caldo.
Nella visione di Loris Fortuna, la battaglia per i diritti civili non era separabile dal più generale impegno per l’emancipazione del lavoro e per una più intensa partecipazione democratica: “queste battaglie – affermava in un intervento parlamentare del 25 novembre 1969 – sono illuminate da contenuti libertari e perciò antiborghesi”, ma subito dopo aggiungeva: “Preferiamo collegarci con le battaglie dell’oggi, con le richieste di maggiore partecipazione, con le domande politiche e di liberazione della classe operaia e degli studenti, in sostanza con la grande voglia dell’uomo di essere compiutamente se stesso, contro il groviglio apparentemente inestricabile di situazioni economiche schiaccianti, di leggi e di regolamenti che ne soffocano il libero sviluppo della personalità”.
L’impegno per i diritti civili e più in generale per una visione laica e moderna della società italiana intessuta, come si è visto, di motivi umanistici, sarebbe proseguita sia nelle iniziative parlamentari per la disciplina dell’interruzione volontaria di gravidanza, sia negli interventi di sostegno dei principi di laicità dello Stato che lo portò su posizioni favorevoli alla separazione Stato e Chiesa e all’abrogazione del Concordato. Si trattava di una vera e propria strategia di ampliamento degli spazi democratici, vissuta come parte integrante di una prospettiva ideale orientata verso un socialismo dei diritti, non disponibile a restare rinchiusa nel recinto degli equilibri politici del momento e consapevole della potenziale incidenza di una proposta in grado di suscitare ampi consensi popolari, anche se non direttamente connessa a rivendicazioni di tipo socio-economico, e di misurare senza pregiudizi l’ampiezza e la portata dell’egemonia cattolica sulla società italiana; una proposta, inoltre, mirante a dare vita a un fronte riformatore in grado di incalzare i due principali partiti di maggioranza e di opposizione e di costringerli a schierarsi su aspetti cruciali della vita civile che coinvolgevano gli interessi e le aspettative di milioni di persone.
Gli eventi sono noti, e non è questa la sede per riprenderli nel dettaglio. Basterà qui ricordare che alle battaglie parlamentari di cui Loris Fortuna fu protagonista (e il lettore non potrà non notare la ricchezza e la solidità dell’argomentazione dei suoi interventi alla Camera) fecero seguito almeno due grandi mobilitazioni di massa, in occasione del referendum sul divorzio (1974) e sulla legge per la depenalizzazione e la regolamentazione dell’interruzione volontaria di gravidanza (1981): mobilitazioni che, lungi dall’inasprire le divisioni del Paese, dal rinfocolare conflitti religiosi o dal produrre traumatiche rotture nelle vite delle persone (come la propaganda integralista e fascista aveva minacciato, sin da subito dopo il varo della legge sul divorzio) hanno invece affermato principi di civiltà, consentendo, con il passare degli anni, di instaurare un clima di maggiore tolleranza e serenità e, in una prospettiva storica di cui oggi si è in grado di apprezzare la portata, di sostituire sempre più le ragioni del dialogo a quelle della contrapposizione, favorendo una delle grandi avventure intellettuali del nostro tempo – il dialogo tra credenti e non credenti – sui grandi temi etici e sociali che costituiscono oggetto di gran parte della Costituzione repubblicana, nonché uno dei lasciti più significativi del Concilio ecumenico Vaticano II.
I saggi che accompagnano questa antologia dei discorsi parlamentari di Loris Fortuna giustamente insistono sulla caratterizzazione libertaria del socialismo del parlamentare friulano: una declinazione della tradizione socialista di particolare rilievo morale oltre che politico, in grado di coagulare forze e sensibilità diverse, con un costante riferimento dell’osservanza e dell’attuazione della Carta fondamentale. “Tutto può essere discusso – dirà Fortuna alla Camera il 7 aprile 1971, intervenendo sulla revisione del Concordato – ma su questo punto non ci dovrebbero essere dubbi. Il rispetto delle norme costituzionali non può essere oggetto di transazione […]”: si tratta di un’affermazione inequivoca, che restituisce il senso di coerenza e di continuità di un’azione che ha avuto nell’esperienza di libertà della Resistenza e nei valori della Costituzione un punto di riferimento indefettibile, nonché di una idea di politica come ascolto, ricerca e progetto, che ha ancora molto da dire e da insegnare al nostro tempo.
Molto opportunamente, sempre a proposito di questi temi, nel Quaderno del Circolo Rosselli dedicato a Loris Fortuna, viene riportato anche un profilo, tracciato da Lorenzo Becattini, di Umberto Grilli, socialista, membro dell’Assemblea Costituente, promotore dell’emendamento che costituisce il presupposto della successiva battaglia per l’introduzione del divorzio in Italia: l’Assemblea Costituente era infatti stata infatti chiamata a votare su un testo di quello che sarebbe diventato l’art. 29 della Costituente, in origine così formulato: “La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio indissolubile” e quell’ultima parola “indissolubile” fu cancellata grazie all’emendamento soppressivo proposto per l’appunto dal deputato Grilli, e passato per un soffio (194 voti a favore e 1919 contrari) nella seduta del 23 aprile 1947. Una data in qualche misura emblematica che, oltre a consolidare il carattere laico della Costituzione repubblicana, apriva la strada alle successive battaglie, che ancora oggi proseguono, in un contesto certo profondamente diverso da quello in cui si svolse la vicenda politica di Loris Fortuna, ma nel quale i processi di globalizzazione e le nuove tecnologie, i grandi squilibri sociali e le nuove crescenti diseguaglianze sollecitano una attenzione ancora più vigile che in passato alla tutela dei diritti della persona, della sua dignità e della sua autodeterminazione.
Pubblicato giovedì 10 Giugno 2021
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