Il libro è una disamina comparata degli ordinamenti statali dei Paesi dell’Europa centro-orientale e di quelli dell’area balcanica sud-orientale. Questi Paesi hanno condiviso un’esperienza recente di socialismo reale (seppur diversamente declinata), pur scontando passati storici remoti e modalità di transizione alla democrazia molto differenti.
I primi 4 capitoli si concentrano sull’analisi degli organi d’indirizzo politico (parlamento, capo dello Stato, consiglio dei ministri), mentre il capitolo 5 affronta la disciplina dei partiti politici e dei sistemi elettorali, che, pur non essendo organi costituzionali, hanno un’incidenza notevole sulla genesi e sulle forme di governo contemporanee. Il capitolo 6, l’ultimo, restringe l’analisi comparata a due soli paesi (Polonia e Ungheria), concentrandosi per quanto riguarda la Polonia sulla vicenda travagliata di uno degli organi di garanzia più autorevoli – il Tribunale costituzionale, e per quanto riguarda l’Ungheria sulla “Legge fondamentale” (Costituzione) emanata nel 2011.
Con una prospettiva d’analisi che va oltre una lettura di tipo giuridico-formale, l’autore entra nel vivo della materia, ponendo attenzione, nella comparazione degli ordinamenti vigenti nei diversi Paesi, alla storia recente, poiché dirompente può essere l’influenza di quest’ultima nel ridisegnare i confini nazionali e dar forma così a nuovi stati. Si pensi alla Bosnia Erzegovina, la cui entità statuale è frutto di un lavoro comune tra diverse potenze globali, culminato nell’accordo di Dayton del dicembre 1995. Oppure al Kosovo, dove fu la comunità internazionale a esigere l’elezione indiretta del capo dello Stato, “sulla base di timori per recrudescenze nazionaliste nel caso avesse finito per prevalere un’opzione opposta”.
Il libro solleva alcuni aspetti disfunzionali dei vari ordinamenti, il cui rischio è la creazione di una situazione d’immobilismo o di stallo decisionale. Questo ha luogo soprattutto quando si verificano casi di “cohabitation” (la maggioranza parlamentare e il Capo dello Stato in carica appartengono a schieramenti opposti). In Polonia il capo dello Stato, eletto direttamente dal popolo, ha un certo peso nella formazione delle leggi. Egli può usare lo strumento del rinvio delle leggi al Sejm (Camera bassa del Parlamento) o porre il veto a una riforma di legge del governo. Può accadere che il vertice dello Stato, a causa di una sfasatura temporale dovuta a una diversa durata dei mandati presidenziali e parlamentari, si trovi a far parte di un campo politico avverso a quello del governo, che è l’espressione della maggioranza parlamentare. E poiché il superamento del veto al Sejm è possibile solo con il raggiungimento di maggioranze politiche superiori ai tre quinti (difficilmente conseguibili), è evidente che il capo dello Stato dispone in questo Paese di uno strumento potente di vanificazione dell’indirizzo politico di maggioranza. Si trasforma, in questo modo, in un leader dell’opposizione più che in un rappresentante dell’unità nazionale soprattutto, poi, se legittimato in ciò dalla sua elezione diretta. Di più. Nel 2007, il defunto Presidente della Repubblica, Lech Kaczyński (PiS), aveva preteso di partecipare ad alcuni vertici della UE. Il governo, allora presieduto da Donald Tusk di Piattaforma Civica (Po), che non desiderava interferenze presidenziali nella politica europea da esso perseguita, si rivolse per dirimere la diatriba al Tribunale costituzionale, che nel rispetto del dettato costituzionale sottolineò la competenza in via esclusiva del governo in materia di politica interna ed estera (compresa la stessa politica europea).
Casi di “cohabitation” possono degenerare in durissimi scontri politico-giuridici, destabilizzanti per il Paese, quando ci si trovi di fronte a discutibili funzioni arbitrali: è il caso della Romania, dove spetta al popolo (oltre ad esprimere un legittimo giudizio politico con le elezioni a scadenza) deliberare in via definitiva, tramite referendum, sulla destituzione o no del Presidente della Repubblica, in caso quest’ultimo abbia commesso reati costituzionali. Normalmente, la sospensione del capo dello Stato è ad opera del parlamento, cui dovrebbe far seguito una pronuncia giurisdizionale di assoluzione o condanna. Per ben due volte, l’ex presidente rumeno, il conservatore Traian Băsescu (eletto dal popolo), aveva subito procedure di impeachment; l’ultima, nel 2012 – in carica il governo di centro-sinistra di Victor Ponta –, che non aveva mancato di sollevare le preoccupazioni della UE.
Apprensioni sono espresse per pratiche di abuso di potere da parte di organi costituzionali, pur nel rispetto formale del principio di separazione dei poteri. In Ungheria, in base alla Costituzione magiara del 2011, il parlamento può sciogliere “ogni ente rappresentativo che operi in violazione della Legge fondamentale”. Quest’ultima estende, dunque, all’assemblea elettiva un potere di sorveglianza sul rispetto dell’ordinamento costituzionale da parte di altri organi, oltre che sull’indirizzo politico. Un paradosso – se pensiamo che il processo di democratizzazione nei Paesi dell’Europa centro-orientale aveva coinciso con la fine dell’influenza illimitata delle assemblee legislative esercitata sotto gli ordinamenti socialisti. Ma è il caso di osservare che in Ungheria vige un sistema elettorale misto a netta prevalenza maggioritaria e uninominale, che ha consentito al partito Fidesz del premier Viktor Orbán (in coalizione con il Kdnp) di superare la maggioranza dei due terzi dei seggi nel parlamento monocamerale sia nelle elezioni del 2010 sia in quelle successive del 2014 e 2018. In Polonia, è il parlamento (dominato da un solo partito, Diritto e Giustizia) che decide se dar seguito all’iniziativa referendaria. Accade così che nel caso sia depositato un numero sufficiente di sottoscrizioni per richiedere una consultazione oppositiva della riforma del sistema scolastico appena approvata dal governo, quest’ultimo non faccia mistero della sua ostilità al riguardo, lasciando intendere che molto difficilmente il parlamento sarà disposto a dar seguito all’iniziativa referendaria, e ciò in spregio al principio di sovranità popolare enunciato in Costituzione. Questo strumento può, inoltre, essere utilizzato dal partito di governo per consolidare il suo potere. Avendo la maggioranza degli scranni della Camera – e dove, tra l’altro, per la prima volta dal dopoguerra, la sinistra polacca non ha propri rappresentanti – l’iniziativa referendaria ha ottime possibilità di successo.
L’ultimo capitolo del libro è dedicato all’analisi dei contenuti della Legge fondamentale adottata nel 2011 in Ungheria, e alla controversa questione legata alla nomina dei giudici del Tribunale costituzionale in Polonia, che vedono questi due paesi allontanarsi sempre di più dalle conquiste democratiche, seppure entro un contesto di libere elezioni. L’Ungheria ha riscritto in chiave ultraconservatrice la Carta fondamentale della nazione, avendo la maggioranza costituzionale per poterlo fare, mentre la Polonia ha depotenziato un organo importante come il Tribunale costituzionale (ponendolo sotto il controllo politico), non avendo i requisiti normativi per procedere alla riscrittura della Costituzione. Anche se il Presidente della Repubblica, Duda, ha ventilato la possibilità d’indire un referendum d’orientamento per emendare la Costituzione del 1997 (da abbinare con le elezioni amministrative previste per l’autunno del 2018), al fine di rafforzare i suoi poteri, mentre lo stesso governo sta pensando a un referendum sull’obbligo eurocomunitario di ricollocazione dei migranti, sulla falsariga di quello ungherese, che potrebbe coincidere con le elezioni politiche previste per fine 2019.
Terminerei con mie due osservazioni personali. Prima. In questi Paesi si sta assistendo a uno strapotere delle maggioranze politiche e a un annichilimento dei contropoteri. Non è qui in discussione il maggioritario, quanto la tenuta dei contropoteri e dei contrappesi. Ovvero, la capacità di rendere effettivo il principio della separazione dei poteri. Seconda. È sempre più attiva una “dittatura della maggioranza”, e conseguente emarginazione delle minoranze politiche, che insieme con la limitazione della libertà di stampa, censura alla rete, e altri provvedimenti lesivi dei diritti, mostra che in Ungheria e Polonia è in corso una mutazione della forma di stato pur mantenendo inalterati, almeno per il momento, gli equilibri formali del sistema di governo e i requisiti minimi di una democrazia elettorale pluralistica.
Cristina Carpinelli, membro Comitato Scientifico del CeSPI (Centro Studi Problemi Internazionali) di Milano per i paesi CEE
Pubblicato giovedì 21 Giugno 2018
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