L’estate è, per molti, una bella stagione anche per dedicarsi alla lettura: le ferie, la luce fino alle soglie della sera, il caldo che invita alla stasi.
È l’occasione non solo per leggere qualche titolo in cima alle classifiche, ma anche per riscoprirne altri dimenticati, o forse non del tutto davvero compresi. Per esempio qualche racconto di Vitaliano Brancati, lo scrittore di Pachino (1907-1954) noto soprattutto per aver descritto e messo alla berlina il “gallismo” della provincia siciliana con Il bell’Antonio, Paolo il caldo e Don Giovanni in Sicilia.
Tuttavia sono altri i racconti su cui vorrei indirizzarvi, ossia quelli raccolti in Il vecchio con gli stivali e altri racconti: scritti in gran parte in Sicilia tra il 1943 e il 1945, in essi il tema dell’antifascismo di Brancati offre le sue migliori prove.
Nonostante l’iniziale infatuazione per il regime, Brancati prese poi le distanze dal fascismo e tra il 1936-37 se ne allontanò in maniera decisa, anche grazie alla frequentazione e all’amicizia di Pompeo Colajanni, il futuro partigiano “Barbato”.
È in particolare nel brano eponimo, Il vecchio con gli stivali appunto (da cui il film Gli anni difficili di Luigi Zampa, del 1948), e nell’amaro e brevissimo La noia del ʾ937 che Brancati scopre la sua personale critica al fascismo, ossia quella condotta non attraverso personaggi di spessore e dalla forte personalità, bensì attraverso protagonisti pressoché “insignificanti”.
«Se vogliamo essere veritieri, e non lasciarci trasportare dalla tentazione di adornare il nostro eroe, dobbiamo dire che una sola qualità lo vestiva dalla testa ai piedi, di fuori e dentro, ne involgeva ogni atto e parola: insignificante».
Aldo Piscitello, infatti, è un uomo mediocre, mingherlino membro di un ceto piccolissimo borghese di cui non può nemmeno dirsi titolare completamente, è infatti impiegato “avventizio” e non di ruolo, come gli rinfaccia sempre la moglie ogniqualvolta litigano. È metodico, mite, quasi senza sangue! Fino al giorno in cui, nel 1930, non è costretto a iscriversi al fascio, proprio lui che al podestà che lo aveva convocato per caldeggiargli quella mossa, aveva risposto «Signor Podestà, sua eccellenza Mussolini è dio e io sono, con rispetto parlando, merda. Ma mi son sempre trovato bene a non far politica…». Fino al 1930 Piscitello non si era dato la briga di essere fascista né quella di essere antifascista, gli era bastato presentarsi al lavoro ogni giorno alla stessa ora e con il colletto duro sempre chiuso anche in estate.
Le pressioni e necessità famigliari infine prevalgono e così anche sulla giacca di Aldo Piscitello spunta il distintivo fascista, e tuttavia egli continua a rispondere per monosillabi e «rimane impenetrabile […]. Nessuno riuscì a cavargli un giudizio politico dai denti». Così per cinque anni, poi Aldo Piscitello si stravolge, succede qualcosa in lui ma nessuno, nemmeno il diretto interessato, sa dire cosa: «In quale punto segreto lo avevano toccato? E così senza parere, come aveva potuto, la società in cui egli viveva, stringerlo per il collo sino a farlo starnazzare come un pollo che ha capito improvvisamente le intenzioni della mano che pareva accarezzarlo?». L’insignificante impiegato comunale inizia una sua tutta particolare forma di ribellione al regime: prende parte ai rituali delle adunate, della vestizione in pantaloni alla zuava e stivaloni, dei raduni squadristi, ma solo per il gusto di poter scaracchiare addosso allo specchio che lo riflette in camicia nera, solo per poter osservare da dentro la natura farsesca dei fascisti, per poter constatare «come attraverso una lente smisurata […] quanto fossero imbecilli, quanto fossero balordi, quanto fossero prepotenti», per sentirli nelle adunate estive «puzzare come capre sotto il pesante orbace. “Oh, le bestie!” diceva fra i denti, passando da un punto all’altro per confrontare il tanfo del segretario politico con quello del segretario federale amministrativo. “Oh, le bestie!”».
La retorica mascelluta del fascismo viene impietosamente tarlata dall’odio di Piscitello, un sentimento talmente sproporzionato che – ci ricorda Brancati con la sua prosa letteraria che spesso lascia spazio a violenti abbassamenti stilistici – «si ficcò in lui con tanta difficoltà, come un vento tempestoso e lungo chilometri in un paio di mutande». L’altra peculiarità della critica fascista brancatiana è che alla retorica del Ventennio non ne viene contrapposta una antifascista, uguale e contraria, no: la reazione è una completa afasia. Quando Piscitello prova a spiegare cosa del fascismo non gli piace e perché, resta confuso, «tradito da tutte le sofferenze che un’anima onesta può ricevere dall’oppressione, e tuttavia incapace di dire perché soffrisse». Eppure sa di avere ragione, smaschera in pieno anche il conformismo e l’indolenza di quelli che più di tutti vorrebbero mostrarsi agguerriti e pronti all’azione: «quando Mussolini domandò agli squadristi se amassero la vita comoda, e quelli, appunto perché l’amavano teneramente, e non volevano essere incomodati dai questurini, risposero: “No! Non l’amiamo, la vita comoda! Vogliamo la guerra! Ci piace star male!”».
Neanche spiato, Piscitello arriva a tradirsi davvero: proprio la sua manifesta mediocrità, la sua inespressività corporea lo salvano dalle epurazioni fasciste. Soltanto quando arrivano gli alleati in Sicilia, i bombardamenti e gli oscuramenti (quel buio di fuori cui corrisponde il «buio nel cuore», come finalmente gli pare di poter nominare il bagnomaria fascista), Piscitello riesce a bofonchiare a voce sempre più alta il suo odio, fino a farne parte con un farmacista antifascista reduce dal confino.
Evacuato con la famiglia e altri disperati in un paesino dell’Etna, ammalatosi di tifo e guaritone, Piscitello saluta al fine i soldati alleati e liberatori. È anche la fine di quello stato psichico anormale e abnorme che si era impossessato di lui: battuto il regime e persa la guerra, Piscitello rientra nell’alveo della propria insignificanza e mitezza, torna a lavorare al Municipio come niente fosse successo, con solo il vestito più liso e sbiadito. Ma il destino ha in serbo una beffa per lui: l’epurazione post-fascista. A questa Piscitello non scampa.
Forse a partire da questo racconto, potrebbe tornare la voglia di rileggere con sguardo più profondo anche qualche altra opera di Brancati, autore molto più complesso di quel che si creda o di quel che alcune trasposizioni cinematografiche hanno voluto mettere in evidenza: i suoi libri non si limitano mai alla satira della provincia italiana, ma descrivono – con la loro sottesa urgenza di moralità – la condizione storica e antropologica dell’Italia fascista, ben riassumibile in un passo del notevole Diario romano (1961):
«Esame di coscienza: ecco tre parole gravemente discreditate in Italia. Il solo sentirle pronunciare dà fastidio e suscita una smorfia di ripugnanza come se alludessero a un’operazione immorale e leggermente disgustosa».
(Tutte le citazioni sono tratte da V. Brancati, Opere 1947-1954, a cura di L. Sciascia, Bompiani 1992)
Pubblicato mercoledì 1 Agosto 2018
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