Su proposta del nostro collaboratore Vito Francesco Polcaro, pubblichiamo un articolo di Lucio Lombardo Radice apparso sul n. 1 di “Rinascita” del 1948. Si tratta di un testo di straordinaria attualità, perché riguarda le condizioni di vita e di lavoro degli assistenti e dei ricercatori universitari del tempo, con particolare riferimento alla ricerca scientifica. Una condizione di lavoro “mal pagato o semi-gratuito, massacrante” che portava molti scienziati all’emigrazione in Paesi più ospitali. Va da sé il parallelo con le vicende del giorno d’oggi.
Lucio Lombardo Radice, classe 1916, scomparve a Bruxelles nel 1982 mentre partecipava ad una conferenza per il disarmo; è stato un insigne matematico e pedagogista e un politico di valore. Perseguitato nel Ventennio per il suo antifascismo, partecipò alla Resistenza romana. Nel dopoguerra continuò nell’impegno politico e professionale. Fu fra l’altro consigliere comunale a Roma e membro del Tribunale Russel (ndr).
Di mese in mese, di anno in anno aumenta l’angoscia, l’amarezza, la sfiducia tra coloro che, in Italia, dedicano la loro attività alla ricerca scientifica. La loro posizione diviene di giorno in giorno più difficile: preziose e insostituibili energie si logorano e si perdono in una lotta sfibrante.
Le Università, che sono tradizionalmente in Italia il centro della ricerca scientifica, non garantiscono in alcun modo a nessun ricercatore un minimo per vivere.
Non possono essere infatti considerati sufficienti per vivere neppure gli stipendi delle categorie relativamente privilegiate, e cioè dei professori e degli assistenti di ruolo. Un assistente di ruolo ad esempio, prende, al vertice della sua carriera, appena 30mila lire mensili: cioè esattamente la metà del minimo indispensabile in una grande città, per mantenere modestamente una famiglia e sostenere le indispensabili spese di studio. Se poi consideriamo il trattamento economico del personale ricercatore non di ruolo le cifre suonano addirittura una beffa. Per una gravosa e delicata attività di lezioni, esercitazioni, assistenza ad esami l’Istituto fisico di Roma era costretto a dare, per mancanza di fondi, a un valoroso gruppo di giovani assistenti non di ruolo, l’elemosina di tremila (!) lire al mese. Altri gruppi di assistenti, in incerta e ambigua posizione, percepiscono 15-20 mila lire al mese. È da notare che da 8 anni non si sono più avuti concorsi per entrare nei ruoli come assistente: e quindi tutti i giovani ricercatori al di sotto dei 30 anni sono necessariamente in situazione miserabile e precaria.
Il lavoro, mal pagato o semi-gratuito, è massacrante. Non tanto e non solo per le lezioni e le esercitazioni, ma per gli esami. Si può affermare senza esagerare che professori e assistenti di fisica, matematica, chimica, biologia, ecc. dedicano due-tre mesi l’anno agli esami universitari nei grandi centri. In ondate successive, migliaia di studenti da esaminare travolgono gli sparuti drappelli degli insegnanti, interrompono per settimane ogni possibile attività di studio e di ricerca.
I mezzi, come è noto, sono poi assolutamente insufficienti. Nei laboratori e negli Istituti grandi il ricercatore deve fare tutto da sé, con mezzi di fortuna: deve essere elettricista e meccanico, preparatore chimico e falegname, calcolatore e uomo di fatica. L’aumento del bilancio del Consiglio nazionale delle ricerche dai 64 milioni dell’esercizio 1945-46, ai 200 dell’esercizio 1946-47 e ai 250 dell’esercizio in corso non è una soluzione, non è un risanamento: è appena una boccata d’ossigeno a un moribondo. Di questo passo, dove andremo a finire?
“Dove andremo a finire?” è la domanda angosciosa, assillante, sempre più angosciosa, sempre più assillante che ogni giorno si ripete chi si dedica alla ricerca scientifica. La scienza italiana va alla deriva: se non si provvede subito, l’Italia decadrà rapidamente fino a diventare una nazione di secondo o terzo piano, dal punto di vista scientifico: una Spagna, una Grecia. Diverrà, come ha detto Gustavo Colonnetti in un recente discorso del quale parleremo di nuovo tra breve, “l’ultimo dei Paesi civili”. Non è ancora così, perché tenacemente, direi eroicamente, gruppi di scienziati di valore tengono duro, procedono: ma, lasciati ancora così e senza aiuto, non potranno resistere a lungo. Seguiranno la via di Fermi e di Rosetti, di Occhialini e di Segre e di Pontecorvo e di Rossi, di Raccà e di Luria, di Wick e di Persico e dei tanti e tanti meno famosi, più giovani scienziati italiani che non hanno saputo o potuto resistere: andranno in America. Per non intristire nella miseria e nell’isolamento, per non restare alla retroguardia della scienza.
Non sono cose nuove. Da tempo, gli uomini di scienza sono consapevoli della gravità della situazione: da tempo anche altri uomini, pensosi dell’interesse della nazione, hanno levato la loro voce. Ricordo un’interpellanza di un deputato comunista sull’esodo dei fisici italiani, un passo della C.G.I.L. per l’attrezzatura dei laboratori scientifici; più recentemente una inchiesta del Centro economico della ricostruzione sulle principali cause della diminuita efficienza della ricerca scientifica in Italia. È però grandissimo titolo di merito per l’on. Gustavo Colonnetti aver posto ultimamente, il 15 dicembre 1947, all’Assemblea plenaria dei comitati nazionali del Consiglio delle ricerche il problema del finanziamento della ricerca scientifica nei suoi termini reali, crudi, drammatici, come problema di vita o di morte.
La prima risposta degli “uomini del Governo” e dei rappresentanti del Paese si è avuta subito, nel corso dell’Assemblea del 15 dicembre.
Il ministro Einaudi ha detto seccamente che non c’è niente da fare. “L’amico Colonnetti” chiede “l’aumento dello stanziamento da 250 a 500 milioni di lire. Se tutti dovessero avanzare le loro richieste raddoppiando la somma del precedente esercizio dove andremmo a finire?”. Così ha risposto un ministro responsabile, che fra l’altro è uomo di cultura; come un mediocre contabile incapace di capire che cosa vi sia di tanto grave nel fatto che i Fermi, i Rosetti, i Segre se ne vadano dall’Italia.
Ben diversa è stata la risposta del più qualificato rappresentante del Paese, Umberto Terracini: “Non credo si possano mettere nello stesso piano tutte le richieste del finanziamento, da qualunque ente ed amministrazione vengano avanzate. Perché io penso alla nostra indipendenza nazionale. Essa può essere minacciata e perduta non soltanto se eserciti nemici calpesteranno il nostro suolo, non solo se diventeremo definitivamente tributari dello straniero nel campo economico, ma anche se ci lasceremo sopraffare nel campo geloso della cultura e del pensiero. La storia e la tradizione insegnano che la decadenza di una nazione insorge così dall’insufficienza di beni materiali, come dalla inerzia o carenza delle energie dell’intelletto e dello spirito”.
Ancora una volta, tra uomini del governo ed esigenze del Paese si manifesta quel profondo, radicale contrasto che caratterizza tutto questo periodo di vita italiana. Vi è chi crede fermamente che l’Italia possa riprendersi, in tutti i campi: dalle fabbriche ai laboratori alle scuole. E sono milioni di lavoratori, di intellettuali, di scienziati. Vi è chi crede invece, anche se non ha il coraggio di dirlo esplicitamente, che l’Italia è ormai condannata a divenire un Paese senza grande industria e senza grande cultura, una semplice riserva di manodopera per i Paesi più sviluppati. E sono gli uomini di governo gli Einaudi e gli Sforza e i Fanfani e i Tremelloni, i pianificatori dell’emigrazione in massa delle forze più vive della nostra produzione, dagli specializzati ai tecnici ai ricercatori. Agli uomini di scienza il compito di unire i loro sforzi a quello dei milioni di lavoratori che non vogliono il fallimento dell’Italia.
Pubblicato giovedì 16 Novembre 2017
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