Nel primo articolo dedicato alle nuove tecnologie militari che tendono sempre più a fare a meno di soldati in carne ed ossa, abbiamo descritto lo sviluppo dei missili da crociera, dalle V1 naziste agli attuali “Tomahawack” e simili (http://www.patriaindipendente.it/terza-pagina/leonardo/dalla-v-1-al-cruise-storia-di-unarma-aerea/).
Queste armi sono usate in sostituzione degli aerei da bombardamento, con lo scopo principale di risolvere lo stesso problema che aveva spinto i nazisti ad inventarle dopo la “Battaglia d’Inghilterra”: evitare la perdita di piloti ben addestrati e difficilmente sostituibili. Inoltre, nella guerra moderna, che è anche una guerra di comunicazione, è essenziale evitare che un pilota sopravvissuto all’abbattimento del suo velivolo venga preso prigioniero, perché diventa una formidabile arma di propaganda per il nemico.
I Cruise da soli però non risolvono interamente il problema. Finita la fase iniziale della guerra, nella quale sono stati colpiti i sistemi di comando e controllo, le caserme, le strade, le ferrovie, gli aeroporti e i porti, le batterie antiaeree e tutti gli altri obiettivi strategici facilmente identificabili, si deve passare al controllo del territorio nemico; i Cruise costano; pare che Bush abbia detto a proposito dell’uso di questi missili durante la guerra in Afghanistan: “Siete sicuri che convenga spendere un milione di dollari per distruggere una tenda di beduini?”.
La soluzione però era sostanzialmente già pronta: gli UAV (“Unmanned Aerial Vehicles”, “Velivoli aerei senza uomini”) o, come sono più noti in Italia, i “droni”. In realtà, anche un Cruise è sostanzialmente un aereo senza pilota, che si schianta sul bersaglio come i kamikaze giapponesi delle II Guerra Mondiale. La stessa tecnologia che lo ha portato sul bersaglio può però essere usata per riportarlo alla base di partenza dopo aver effettuato la sua missione e solo un po’ di tecnologia in più può farlo atterrare senza danni. Basta sostituire la carica esplosiva dei Cruise con qualcosa d’altro che possa svolgere gli stessi, o altri, compiti.
Nel caso dei droni, vanno infatti distinti quelli da ricognizione da quelli armati.
I primi sono ampiamente utilizzati anche a scopi civili. In USA, i droni sorvegliano costantemente il confine con il Messico, per impedire l’immigrazione e i traffici di droga clandestini. In tutto il mondo sono poi utilizzati in ogni occasione in cui sono necessarie fotografie aeree per gli scopi più disparati (aerofotogrammetria, archeologia, controllo del traffico, monitoraggio di disastri ambientali, ecc.), senza avere la spesa del pilota, oltre a quella del mezzo.
I droni da ricognizione a scopo militare sono certamente molto più sofisticati e costosi di quelli civili (che ormai si possono acquistare anche nei negozi di modellismo, a partire da poche centinaia di euro, se ci si contenta di immagini di qualità non eccelsa) e sono in dotazione agli eserciti di molti Paesi. A bordo non ci sono armi ma sensori ad alta risoluzione che consentono di vedere anche attraverso la nebbia o la fitta vegetazione e di individuare di giorno e di notte veicoli e persone anche a notevole distanza. Essi sono ad esempio utilizzati dalla CIA e dalle Forze Armate degli Stati Uniti in Afghanistan, Pakistan, Yemen, Iraq e Siria. La Francia ha acquistato recentemente dal produttore statunitense due droni da ricognizione “Reaper” e li ha schierati in Sahel per sorvegliare i movimenti dei miliziani di al-Qaeda e di altri movimenti insurrezionali. Anche l’Italia produce droni militari da ricognizione negli stabilimenti della Selex Es di Ronchi dei Legionari. Questi sono in dotazione all’Aeronautica Militare e sono già stati usati in operazioni nell’ambito della missione ONU nella Repubblica Democratica del Congo.
Tutto sommato, quindi, i droni da ricognizione non costituiscono un problema etico, ma solo un utile sviluppo tecnologico, anche se ad uso sia civile che militare.
Ben diverso è il caso dei droni da combattimento (UCAV, “Unmanned combat aerial vehicle”). Questi sono sempre aerei senza uomini a bordo, pilotati via computer a distanza, a volte anche di centinaia di chilometri, ma sono armati con cannoncini a tiro rapido e/o con le cosiddette “bombe intelligenti”: il pilota remoto punta queste armi e apre il fuoco come il pilota di un aereo da attacco al suolo convenzionale.
In realtà, le “bombe intelligenti” non sono bombe, ma missili capace di dirigersi seguendo un raggio laser riflesso su di una superficie lucida del bersaglio, ad esempio una finestra o una parte metallica pulita. Spesso è un commando a terra, nascosto a qualche chilometro dall’obiettivo, che genera il raggio laser di guida, magari dopo aver preventivamente fissato un piccolo specchio sul bersaglio. Al raggio laser viene poi “agganciato” il missile, lanciato da un aereo a debita distanza. Però, se il commando viene intercettato e costretto alla fuga o fatto prigioniero, il missile perde ogni controllo e va a finire dove capita. Il raggio laser di guida può essere generato anche dallo stesso aereo che lancia il missile, ma questo non può allontanarsi troppo dal bersaglio durante il volo del missile, esponendosi così al fuoco della contraerea.
I droni risolvono questo problema: l’aereo senza pilota può avvicinarsi al bersaglio, senza rischi per il suo operatore remoto, e tenerlo inquadrato con il laser finché il missile non lo distrugge.
Se le potenzialità militari stanno facendo adottare i droni da combattimento ad un numero sempre maggiore di forze armate, il loro uso presenta però un drammatico problema etico.
Infatti, essendo pilotati a distanza, deresponsabilizzano il militare che li guida, che tende a valutare l’attacco che sta conducendo quasi come un videogioco, anche perché ormai ha passato la sua infanzia ed adolescenza uccidendo virtualmente migliaia di esseri umani davanti allo schermo di un computer. Sapendo di non rischiare nulla, salvo forse una ramanzina se non riporta alla base il suo drone, può essere così spinto a continuare il suo attacco per accumulare sempre più nemici uccisi, come se si trattasse di accumulare punti ad un videogame.
La questione è resa ancora più grave dal fatto che gli obiettivi dei droni sono scelti sempre più spesso sulla base non di informazioni sicure ma di algoritmi statistici, che analizzano una serie enorme di dati e individuano i “comportamenti sospetti” di singoli e di gruppi con algoritmi di network analysis del tipo di quelli usati dagli operatori di borsa per prevedere l’andamento dei mercati. Quello che questi sofisticati programmi informatici individuano non è quindi il “nemico certo”, ma il “nemico altamente probabile”. Questa strategia è stata esplicitamente dichiarata dall’attuale direttore della CIA, John O. Brennan, che l’ha definita l’unica in grado di operare con efficienza nella guerra asimmetrica, dove il nemico è il terrorista e quindi non è riconoscibile con sicurezza, si muove quasi sempre in piccolissimi gruppi e si confonde con la popolazione civile. È quindi inevitabile che tra questi “terroristi altamente probabili” ci siano moltissime persone innocenti, che diverranno vittime del pilota remoto del drone, specialmente se questo non riesce a distinguere il suo attacco mortale dai videogiochi che faceva da ragazzo.
Per questo motivo, molti pacifisti, specialmente nella comunità accademica, chiedono che si inizino al più presto trattative internazionali che possano portare ad una messa al bando dei droni da combattimento.
C’è però anche un altro motivo che spinge in questa direzione.
Ormai, stanno diventando operativi anche mezzi terrestri semoventi armati pilotati in remoto. Per altro, anche in questo caso la tecnologia ha avuto precedenti ad uso civile: basti pensare ai robot usati dagli artificieri per disinnescare ordigni esplosivi, a quelli impiegati per controllare tubature sotterranee o addirittura ai robot che esplorano già da anni la Luna, Marte ed altri pianeti e satelliti del Sistema Solare.
Proprio questi ultimi, di per sé una delle più grandi conquiste della scienza e della tecnologia moderna, fanno però temere uno sviluppo agghiacciante: se un robot può in modo sostanzialmente autonomo esplorare un pianeta lontano, cosa può impedire di svilupparne un altro che, autonomamente, combatta una guerra per chi lo ha costruito?
Può sembrare un’idea tratta dai film di fantascienza, ma purtroppo questi robot che scelgono da soli chi uccidere esistono già e almeno in un caso sono già operativi: sono i “lethal autonomous robots”. Di questi però parleremo in un prossimo articolo.
Vito Francesco Polcaro, scienziato dell’Istituto di Astrofisica e Planetologia spaziale (Istituto Nazionale di Astrofisica), e membro del Centro per l’astronomia e l’eredità culturale dell’Università di Ferrara
Per saperne di più:
- Gianfranco Bangone, “La guerra al tempo dei droni”, Roma (Alberto Castelvecchi Editore), 2015
- Pietro Greco, “Droni da combattimento: generali in camice bianco”, Rocca,15 Maggio 2015, pp. 16-18
- Vito F. Polcaro “Una breve storia della guerra aerea” in “Armi e intenzioni di guerra: rapporto 2004”, a cura dell’Osservatorio sui sistemi d’arma, la guerra e la difesa, Pisa (Pisa University Press), 2004
Pubblicato lunedì 21 Marzo 2016
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