Alberto Manzi

 “Classificare significa obbligare ad accettare definizioni stabilite, impedire il ragionamento, rendere tutti simili al modello prefisso, significa educare alla menzogna e alla falsità. Classificare significa educare alla divisione classista (bravi, più bravi, meno bravi, ecc.), significa selezionare, distruggere la personalità” (7 giugno 1975). Per tutti questi motivi il maestro Albero Manzi, nell’arco della sua docenza, non ha mai classificato alcun alunno e alcun lavoro dei suoi studenti.

Classe 1924, figlio di un tranviere e di una casalinga, la notorietà del maestro arriva con la pioneristica trasmissione “Non è mai troppo tardi. Corso di istruzione popolare per il recupero dell’adulto analfabeta”, con la quale tiene un’intera popolazione inchiodata alla Tv per 484 puntate da novembre 1960 a maggio 1968. Voluta dalla Rai e dal Servizio Centrale per l’Educazione Popolare del ministero della Pubblica Istruzione, imitata in settantadue Paesi, nel 1960 la trasmissione riceverà il premio internazionale Onu e nel 1965 verrà premiata dall’Unesco come uno dei programmi più significativi nella lotta contro l’analfabetismo.

Manzi, da quell’esperienza definito il “maestro d’Italia”, riproduce in televisione delle vere e proprie lezioni di scuola primaria, con metodologie didattiche innovative, dinanzi a classi composte di adulti analfabeti o semi-analfabeti. Si stima che quasi un milione e mezzo di persone abbiano conseguito la licenza elementare grazie a queste lezioni “a distanza”.

Da Roma all’Amazzonia

Contestualmente alla professione di insegnante, dall’estate del 1955 (e fino al 1977) Alberto Manzi si reca sull’altipiano andino tra Ecuador e Perù per proseguire la sua professione e insegna a una quindicina di indios e campesinos l’alfabeto, a leggere e scrivere in spagnolo. Poi loro avrebbero trasmesso le conoscenze acquisite ad altri nel villaggio. In quegli anni e in quei luoghi chi insegnava a leggere e scrivere era considerato un sovversivo, un rivoluzionario e rischiava di essere picchiato o arrestato.

Giunto come “esploratore” ignaro e curioso del mondo latinoamericano, ne diventerà un profondo e attento conoscitore, con rara capacità e sensibilità a-centrica rispetto alla formazione culturale di stampo euro-etnocentrica che caratterizzerà la maggior parte delle analisi storico-politiche e socio-economiche del ventennio 1960-70 che verranno elaborate nel Vecchio Continente a uso e abuso dei popoli latinoamericani.

(Pixabay, Arturo Quoque)

L’esperienza latinoamericana rappresenta l’aspetto meno noto — ma non secondario — della vita di Manzi, ed è lui stesso che ne riconosce particolare valore: “Ero andato in Sudamerica per studiare le formiche, ma vi ho trovato cose più importanti». Come ha puntualmente sottolineato la figlia Giulia Manzi, «eppure l’Alberto Manzi che andava a insegnare agli indios a leggere e a scrivere, che denunciava la violenza di un potere politico sulla povera gente, che rischiava la sua vita in nome dell’educazione e della dignità umana… quell’Alberto Manzi lo conoscono in pochi. Sebbene non parlasse spesso delle sue peripezie sudamericane, esse vivono in forma romanzata nei suoi libri”.

I suoi libri, appunto. Mi riferisco a La luna nelle baracche (Salani, 1974), El loco (Salani, 1979), E venne il sabato e Gugù (scritti nel 1997 e pubblicati postumi nel 2005 da Gorée). Ancora oggi, a cento anni dalla sua nascita, i romanzi di Alberto Manzi sono libri-denuncia. Ne La luna nelle baracche ricorrono tutte le tematiche e le principali specificità del mondo latinoamericano che riemergeranno con forza nei successivi lavori, quali lo sfruttamento delle materie prime, sistema repressivo, dominio delle multinazionali, arroganza del potere, liberazione dall’oppressione, condizione e impegno delle donne nella società, la disobbedienza e il desiderio di riscatto, dimensione religiosa, teologia della liberazione, alfabetizzazione educatrice, risveglio della coscienza, ruolo della chiesa, rispetto dei diritti dei popoli e così via. Pedro è un campesino, è protagonista e martire, ma non è solo un personaggio del romanzo, bensì simbolo perché ha capito, per chi crede e vuole, che è possibile costruire una società diversa da quella tipica dei Paesi del Terzo Mondo. Pedro è il coraggio della ribellione al potere, e proprio per questo la Luna nelle baracche rappresenta un libro di denuncia contro lo status quo e di speranza.

La nave negriera. Dipinto di Willhem Turner, 1840

I popoli muti

Sempre schierato dalla parte degli ultimi, in una lettera del 9 gennaio 1985, ad un suo interlocutore Manzi risponde con chiarezza: «Se ho preso posizione…sì, innanzi tutto come uomo, che rispetta altri uomini, che li vuole rispettati e che fa quel che gli è possibile per dar loro una mano. Come scrittore, facendo conoscere alcuni aspetti del problema “sud America”». I campesinos descritti da Manzi sono segnati da quelle che lo storico Alain Rouquié ha definito le “stigmate dell’evento coloniale”, vittime sottomesse dagli effetti del colonialismo prima e dell’imperialismo poi, a cui fino ad allora non era stata riconosciuta la piena titolarità di diritti politici, economici, civili e sociali.

Un’opera di Luiz Carlos Cappelano che ritrae lo scrittore e pedagogista brasiliano Paulo Freire (dettaglio)

Su questo concetto-chiave si sofferma più volte Manzi, focalizzando l’attenzione sull’atteggiamento delle popolazioni indigene che può essere riassunto con l’espressione «yo atendo», con la quale lo scrittore indica proprio la subalternità di quegli uomini e donne alle molteplici espressioni del potere. Si tratta di un retaggio storico che sociologicamente il pedagogista brasiliano Paulo Freire ha definito il “mutismo brasiliano” o “cultura del silenzio” e che analizza in questi termini: «la società cui è negato il dialogo (comunicazione) e che al posto del dialogo riceve dei comunicati, mescolanza di coercizione e elargizione, diventa necessariamente muta». E ancora: «Tra di noi […] predominò il mutismo dell’uomo, la sua non partecipazione alla soluzione dei problemi comuni. A causa del tipo di colonizzazione che abbiamo subito, ci è mancata del tutto l’esperienza della vita comunitaria. Oscillavamo tra il potere del signore delle terre e quello del governatore».

In questo senso i popoli muti di Manzi sono “oggetto di cronaca” e contemporaneamente soggetti delle cronache sui cui corpi vengono perpetrate violenze infernali, abusi gratuiti e ripetuti per tenerli con la schiena piegata e la testa china, sia per lavorare come schiavi (ad esempio estrarre rame o raccogliere caucciù), che per obbedire come servi.

Romanzi che colpiscono il lettore

Un passaggio del romanzo E venne il sabato è un “pugno allo stomaco”, perché Manzi vuole colpire il lettore direttamente e senza filtri. L’obiettivo pedagogico e civile è quello di denunciare sicuramente, ma non solo, anche di far riflettere, indignare e sollevare le coscienze.

Ed ecco che il sovrintendente del villaggio per punire una donna che, sfiancata dai colpi di punizione ricevuti ogni sabato nella piazza assolata ai piedi del Palazzo del Governo, non riusciva più a raccogliere la quantità di caucciù imposta dalla Compagnia, ordina di punire il figlio più grande: «Sette anni, signore. Il più grande ha sette anni, poi ce n’è uno di cinque e uno di tre. Manda a prendere il bambino. Lo portarono poco dopo. Rideva felice, il piccolo. Per la prima volta era salito su una macchina e il fatto gli era piaciuto. Lo avvicinarono all’inferriata e lo legarono. Il bambino si guardò attorno, incerto se ridere o avere paura. Pensava di partecipare a un gioco, un gioco strano, ma sempre un gioco. Fu il silenzio della folla a impaurirlo. Scoppiò a piangere invocando la mamma. Questa, sfinita, accasciata in terra, provò ad alzarsi, ma riuscì solo a tentennare la testa. Fatelo tacere! ordinò il sovrintendente. Gli misero un bavaglio. La madre pareva morta, assente del tutto, indifferente a tutto. Sei colpi!».

L’Alberto Manzi sudamericano è un missionario laico, un “volontario militante” che ha dedicato la sua esistenza al prossimo, non senza pagare in prima persona per le sue scelte. Il maestro, infatti, viene arrestato in Sudamerica per difendere una ragazza che veniva malmenata dagli uomini della compagnia che controllava l’estrazione dell’argento. Solo pochi anni fa Giulia Manzi ha scritto dell’esperienza di suo padre nelle carceri boliviane: «Volevano fargli confessare di essere lì per motivi politici, quindi finirono per torturarlo: la polizia gli spegneva le sigarette sulle gambe e gli strappavano le unghie». La detenzione durò un mese e poi venne dichiarato “non gradito” dal governo.

Sono gli anni in cui si diffonde, grazie a una ricca produzione editoriale, il processo di “alfabetizzazione coscientizzatrice” di Freire, secondo cui «la liberazione autentica, che è umanizzazione in processo […] Non è una parola in più, vuota, creatrice di miti. È una prassi, che comporta azione e riflessione degli uomini sul mondo, per trasformarlo». Questa capacità di analisi critica della propria condizione è il primo e indispensabile passo che crea il terreno per consentire ai popoli sottomessi di sollevare la testa e “guardare il sole, sempre, sempre”, come auspica la Maddalena di Manzi per suo figlio ne La luna nelle baracche.

Per Manzi possedere la parola in tutti i suoi aspetti permette di pensare con la propria testa, permette loro di rafforzare la propria presa di coscienza, consente di fare scelte in libertà. In questa chiave di lettura l’epilogo de La luna nelle baracche è sia un grido di denuncia che di speranza nel futuro grazie a Pedro che indica al suo popolo la via della libertà da difendere “col capo eretto” e che proprio per questo motivo viene giustiziato: «Guardò la sua gente. Era muta, immobile, ma finalmente viva. Lo sentiva. Gente che era stata sempre capace di dare, nelle condizioni più disumane, un senso umano alla vita. Ed ora sarebbe stata capace di dare tutto, ora che riprendeva il coraggio di pensare a voce alta». Ecco dunque la gente che agisce, che si fa soggetto, che adesso diventa popolo, diventa un noi. «Vedi signore, tu t’arrabbi subito, mentre noi vogliamo parlare. Anche questo è essere. Noi vogliamo criticare quello che facciamo, perché solo così possiamo crescere, perciò possiamo vivere. Tu hai paura di non avere più. Per questo vuoi farci tacere. Per questo hai le leggi che non si cambiano mai, perché sono fatte per aiutare chi vuole avere, non per chi vuole essere».

Dalla penna alla pratica

La missione educativa di Manzi in quegli anni prosegue incessantemente. Nel 1969-1970 realizza per la Rai la trasmissione radiofonica giornaliera per i giovani “Il mondo è la mia patria” (di cui è autore e presentatore), e poi a seguire “Programmi per l’estero” (incontri giornalieri per l’insegnamento della lingua italiana), “Finalmente anche noi” (per la sperimentazione dell’uso del mezzo radiofonico da parte dei giovanissimi), “Educare a pensare” (per il rinnovamento totale della scuola dell’obbligo), “Fare e disfare” (per il rinnovamento della scuola dell’infanzia), “Il gioco come sviluppo dell’intelligenza”, “Impariamo insieme. L’italiano per gli extracomunitari”. Unico e non più ripetuto tentativo della televisione pubblica. Ancora una volta il suo sguardo al futuro aveva indicato una strada da percorrere. Nel 1970 per l’editore Ave di Roma pubblica Appunti per rapidi disegni alla lavagna, Il pianeta chiamato terraLa societàL’uomo contro la fame e l’anno seguente realizza sempre per la Rai “Impariamo ad imparare”, come sollecitare il bambino a costruire il proprio sapere.

Il presidente argentino Raúl Alfonsín, eletto dopo la fine della dittatura, chiamò Alberto Manzi per realizzare un programma di alfabetizzazione sul modello di “Non è mai troppo tardi”

Nel 1987 Manzi torna in Sudamerica per tenere un corso di formazione per i docenti universitari che avrebbero dovuto elaborare il primo “Piano Nazionale di Alfabetizzazione” dell’incipiente democrazia argentina post-dittatura, supportato dall’Unesco, che il governo del presidente Raúl Alfonsín voleva realizzare sul modello di Non è mai troppo tardi. Nel dossier Reflexiones Críticas en torno del Quinquenio de la Alfabetización de las Américas redatto dalla Commissione nazionale di alfabetizzazione funzionale ed educazione permanente si legge che per diffondere capillarmente nel vasto territorio argentino il piano di educazione anche attraverso i mezzi di comunicazione, quali radio e televisione, «è giunto nel nostro Paese il Professore Alberto Manzi, l’autore del grande programma italiano Nunca es demasiado tarde, che ci ha insegnato tecniche idonee per adeguare questa metodologia». Nel 1989 l’Argentina, grazie anche al maestro italiano, riceve e un premio internazionale per il miglior programma di alfabetizzazione adottato in tutto il Sudamerica.

Quelle di Manzi sono state battaglie di civiltà per la piena affermazione dei diritti umani dei popoli oppressi: “Ogni altro sono io”, è l’imperativo etico di Manzi, ed è proprio questo concetto che attribuisce ancora oggi valore ai suoi insegnamenti.

Andrea Mulas, storico Fondazione Basso, autore di numerosi libri, ultimo in libreria “L’oro introvabile. Saverio Tutino e le vie della rivoluzione”