Una notizia che non t’aspetti o semplicemente speri che non arrivi mai, perché non si è mai pronti a sentir dire “Gigi Proietti è morto”.
Ti viene da pensare ad uno scherzo, a una battuta. Vuoi perché al suo nome, alla sua faccia, alle sue parole, a quel timbro di voce così originale, ci sei troppo abituato; vuoi perché speri abbia ancora qualcosa da raccontarti e magari ironizzare sulla notizia della sua morte.
Già, perché Gigi Proietti, maestro di recitazione, non recitava. Raccontava, come sanno fare i grandi, che ti prendono per mano e ti portano nella dimensione del diverso senza farti sentire ospite.
Questo era Gigi Proietti, in fondo uno di famiglia, mai un estraneo, che non ti stupisci di vedere in teatro, al cinema, in televisione, o per strada, allo stesso modo. Capiamo però che oggi non è così. Gigi Proietti è morto per davvero. E che diamine, non si muore così, caro Gigi, il 2 novembre poi, il giorno in cui si ricordano tutti i defunti, ma tu non sei uno dei tanti, e proprio nel giorno in cui sei nato, come Shakespeare. Anche per questo si è grandi?
E muori lo stesso giorno di Pasolini e come lui ci hai insegnato a guardarci intorno per capire il mondo, interpretarlo ed essere poi pronti a dire qualcosa. Che dote, caro Gigi, dire qualcosa quando il mondo ti induce a tacere, oggi che anche questo virus maledetto ci induce a farlo, per non travolgere il tuo ricordo di una partecipazione popolare e infinita. Come sarebbe stato quando se n’è andò un altro grande, Alberto Sordi, al quale tu dicesti, in una piazza San Giovanni gremita: “Io so’ sicuro che nun sei arrivato ancora da San Pietro in ginocchione, a mezza strada te sarai fermato a guarda’ sta fiumana de persone. Te rendi conto sì c’hai combinato, questo è amore sincero, è commozione, rimprovero perché te ne sei annato, rispetto vero tutto pe’ Albertone. Starai dicenno: ma che state a fa’, ve vedo tutti tristi nel dolore e c’hai ragione, tutta la città sbrilluccica de lacrime e ricordi ‘che tu non sei sortanto un granne attore, tu sei tanto di più, sei Alberto Sordi”.
E così, ci hai sempre saputo far emozionare e riflettere, con dolcezza e ironia, con una battuta comica o con una frase drammatica, perché l’obiettivo di un “mattatore” è usare gli strumenti che ha a disposizione per raggiungere il fine ultimo dei sentimenti. Perciò, caro Gigi, hai fatto cultura, perciò ci hai insegnato senza mai erigerti a maestro, perciò hai combattuto per le cause giuste senza la platealità dell’opportunismo individuale. E ti dirò di più, a modo tuo hai fatto politica, perché ci hai indotto a riflettere e a ricordare.
Come quando nel ’76 “recitavi” con coraggio, nello spettacolo “A me gli occhi please” un testo di Roberto Lerici dal titolo “Mi’ padre”, nel quale parlavi di un padre partigiano, morto fucilato, che non si rassegnava all’idea che la morte di fatto impedisse di tagliare il traguardo del miglioramento delle condizioni di vita delle persone e della conquista dei diritti. La lezione l’abbiamo capita e anche la tua scomparsa sarà un volano per continuare a credere che la cultura possa essere per tutti e di tutti, perché simbolo di emancipazione e di crescita individuale e collettiva.
Vincenzo Calò, componente della Segreteria nazionale Anpi e responsabile area Sud
Pubblicato lunedì 2 Novembre 2020
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