Alla Galleria Comunale de Cilia a Treppo-Ligosullo (Udine) è stata inaugurata una mostra personale del grande pittore, incisore e scrittore Giuseppe Zigaina (Cervignano del Friuli, 1924 – Palmanova, 2015), “Voltarsi indietro”; la prima di un ciclo di manifestazioni in occasione del centenario della nascita. L’esposizione è anche un ritorno in quei luoghi, dove nel 1958 l’artista realizzò, nella sala consigliare del Municipio (dove sull’entrata fa bella mostra un bronzo di Dino Basaldella), un grande affresco raffigurante la “Gente di Carnia”. Opera andata distrutta, ma risorta poi sotto forma di mosaico nel 2003.
Il titolo, riprende una frase citata dall’artista in un’intervista in occasione della mostra antologica a Pordenone nel 1990. Queste le sue parole: «C’è sempre un momento in cui si sente il bisogno di voltarsi indietro: forse per capire meglio se stessi, oppure per individuare meglio l’unità di un discorso o il senso di una, sia pur provvisoria, totalità. Ma questo momento lo decide la vita o la realtà di un insieme di cose. […]. Tuttavia, per tante ragioni che qui, genericamente, mi limito a definire di carattere psicologico, questo “voltarsi indietro” comporta uno stato d’ansia e di disagio che ho sempre lasciato, giovanilmente, al futuro. Ma il futuro si assottiglia sempre di più… (1)».
Quel “voltarsi indietro”, due volte citato, ci è parso come un invito allo spettatore, affinché questi si soffermi, con uno spirito critico, sul lungo e articolato percorso creativo di Zigaina, con una lettura che segua attentamente l’evoluzione linguistica sia della pittura che della grafica, cui l’artista ha dedicato una importante parte della sua produzione, nonché le esperienze personali; tutto ciò ci permette di comprendere il rapporto che Zigaina ha avuto con importanti artisti, critici e intellettuali del Novecento.
Il 1942 è l’anno dell’esordio come artista espositore. Su proposta di Marcello Mascherini, scultore udinese, viene invitato alla XVI Mostra Sindacale Giuliana presso la Galleria d’Arte al Corso a Trieste. Poi il trasferimento a Tolmino nei tragici anni tra il 1943 e il maggio del 1945. Sono anni d’angoscia per tutti, ancor più significativamente per le terre friulane sotto il comando del Terzo Reich.
Il giovane Zigaina sperimenta, come tutti gli artisti, la segregazione degli animi e la mancanza di un’idea di futuro. Durante la Resistenza, vive una drammatica solitudine “che sfugge ad una qualsiasi definizione”. Anche la sua visione della realtà non può che essere schermata da colori cupi e tetri, alimentati dalle restrizioni della vita quotidiana. Per queste ragioni dopo la fine della guerra ogni novità non può che essere portatrice di entusiasmo e voglia di futuro.
Una realtà che per ogni giovane deve essere apparsa come uno stimolo a progettare un nuovo mondo e che Zigaina ben simboleggia nel grande quadro Partigiani, conservato nella sede dell’Anpi Nazionale. Giovani, con le “biciclette contadine”, con lo sguardo fiero, ricco di speranza. Visi attorniati da bandiere tricolori, simboli di un’Italia nuova, foriera di un futuro che vuole lasciarsi indietro, come monito della memoria, i corpi di due ragazzi impiccati.
All’esame di diploma, nel 1948 a Venezia, il giovane Zigaina relaziona, davanti a Bruno Saetti, sull’opera Bernardino della Ciarda che disarciona Niccolò da Tolentino, il pannello centrale della Battaglia di San Romano di Paolo Uccello. Un quadro che – come più volte ha sottolineato – non si discosta per tragicità e per cromatismo dai colori che tinteggiano la Bassa Friulana nelle corte giornate d’inverno, ma pure gli fornisce il pretesto per dipingere Bambini che giocano (1948), opera carica di sperimentazioni derivanti dalla vivacità artistica della Biennale di Venezia del 1948, la prima dopo la catastrofe della guerra. È il ritorno in Italia dell’arte internazionale, la cui portata estetico–linguistica rende coscienti gli artisti italiani di quanto l’arte sia cambiata e quanto questa sia lontanissima dall’autarchica creatività del ventennio appena trascorso.
Altri stimoli provengono dal friulano Armando Pizzinato, uomo di spicco nel panorama artistico nazionale; uno dei fondatori, assieme a Birolli, Morlotti, Santomaso, Vedova e Viani (con l’adesione anche del critico Giuseppe Marchiori, autore del bel saggio G. Zigaina, pittore autentico, pubblicato ne “Il Mattino del Popolo”, Venezia, 15 aprile del 1948) del Fronte Nuovo delle Arti. L’intento di quei giovani è portare in Italia alcune esperienze artistiche europee per colmare le lacune espressive e contenutistiche dell’arte del Novecento italiano.
Il naturalismo, il realismo e la composizione di tipo neocubista rendono Zigaina ormai un artista maturo e inconfondibile nel panorama artistico nazionale. Ad alimentare criticamente lo sviluppo del linguaggio pittorico e a focalizzare l’attenzione verso il mondo degli umili, contribuisce prepotentemente la figura di Pier Paolo Pasolini, a cui l’artista si legherà da una profonda amicizia e dalla quale scaturiranno collaborazioni lavorative e reciproci scambi e attenzioni intellettuali.
Minatori (1949), Braccianti (1950), Il ritorno dai Campi (1953), Carro col Fieno (1953), Falciatori che riposano (1954-55), Donna di Treppo Carnico (1958) sono opere legate alla realtà contadina della Bassa friulana; i braccianti sono i protagonisti del duro lavoro nei campi, delle lotte sindacali del Cormor; sono l’identità di un popolo che ha praticato lo “sciopero all’incontrario”, prestando gratuitamente la propria manovalanza per opere di pubblica utilità. I visi scavati, il loro girare con la “bicicletta contadina” sui campi, gli scarni pranzi consumati sul posto di lavoro, sono la richiesta di un riscatto sociale da parte di queste classi subalterne, che da sempre hanno subito le angherie del potere.
E Zigaina questa realtà la racconta raffigurando i vari personaggi e gli ambienti, con un realistico cromatismo d’atmosfera. Sono i colori della campagna, di una terra che sa di lavoro, di sacrificio e di sudore. L’artista interpreta quell’ambiente ovattandolo in tutte le ore della giornata con quel velo di luce che preannuncia la nebbia, come in Inverno (1960) dove i colori si confondono, si mescolano e diventano una grande macchia che si contrappone a una fila di alberi freddi e spogli, nel grigiore delle brume. Come scrive Sergio Colussa «Mare, terra e fango si manifestano sempre nelle sue opere, in un’interminabile apparizione di mistero, di memorie e di rivelazioni sempre sfiorate da una luce di poesia dura che straccia il velo tra il visibile e l’immaginifico (2)».
Realtà terrene in contrasto con un orizzonte segnato da un cielo celeste, terso; un infinito senza nuvole. Il marrone della terra arata, il verde dell’erba, degli alberi e dei canneti che incorniciano il corso dei fiumi o dei canali scavati dagli scariolanti friulani, che: «Feriti dall’agra, notte ch’era loro, del loro stanco, ritorno dai campi nell’odore, di fuoco delle cene … uno a fianco, all’altro gridavano le parole, che quasi incomprese, erano promessa, sicura, espresso, rivelato amore (3) ».
E un “voltarsi indietro” quando si osserva la realtà attraverso il proprio presente, il proprio intimo; come è una “visione” pensare che, oltre alle cose che vediamo, esistono altre “realtà irreali”. A volte appaiono improvvisamente come figure che, uscite dalla nebbia, prendono forma, come ombre dai contorni sfumati e pennellate dai ricordi. Si avverte, in molte delle sue opere della fine del XX secolo, la contrapposizione tra la vita e la morte, tra la natura che ci circonda e le visioni di una realtà immaginaria. Un guardare contemporaneamente all’essere e al non essere, alla realtà e al sogno, al presente e al futuro cui la vita conduce. Tracce di sensibilità dolorante spesso sottolineate da energici e improvvisi segni liberatori contrapposti a una ragionata composizione figurativa.
È questo un dualismo che si riscontra in molti dipinti: è la rappresentazione di un personale rapporto con lo spazio, una singolare separazione tra la terra e il cielo, tra il sotto e il sopra, tra il reale e l’onirico, tra il guardare e l’immaginare. C’è “qualcosa” di vicino, sempre in primo piano che ci appare immerso in uno spazio indefinito, caratterizzato da un’atmosfera ammorbidita, quasi fiamminga, avvolta da una luce che anticipa l’alba, il misterioso chiarore che accompagna lo svanire dei sogni, delle visioni e dei ricordi; figure che emergono dal passato e ridisegnate dalla fantasia, e che paiono immergersi materialmente in un indefinito campo visivo. È un infinito ragionato e immaginato, più mentale che reale, più sensitivo che corporale in una scenografia che conferisce alle figure una solidità compositiva. È quell’attimo in cui l’artista prende coscienza che le immagini pensate possono diventare delle forme reali, un “qualcosa” che spinge la mano a materializzare le emozioni e le sensazioni, similmente al verso pasoliniano dei Quadri friulani: «Ah, il filo misterioso, si dipana ancora: e in esso, nuda, la realtà – l’irreale Qualcosa, che faceva eterna quella sera (4)».
Diego A. Collovini, docente di Storia dell’Arte all’Accademia di Belle Arti di Udine
NOTE
(1) 1942 -1990 – Conversazione tra G. Pauletto e G. Zigaina, in Catalogo mostra Zigaina, a cura di F. De Santi e G. Pauletto con scritti di altri autori, presso Galleria Sagittaria, Pordenone, dal 9 giugno al 31 luglio 1990. Ed. Concordia Sette, pag. 13.
(2) S. Colussa, Il futuro non è quello di una volta, Udine, 2023 pag. 174
(3) P. P. Pasolini, Le ceneri di Gramsci, Einaudi, 1981, pag. 54
(4) P. P. Pasolini, Op. cit. pag. 56
Pubblicato domenica 26 Maggio 2024
Stampato il 21/11/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/terza-pagina/forme/zigaina-larte-di-voltarsi-indietro-per-guardare-avanti/