Adriana Filippi, nata a Torino nel 1909, è stata staffetta e l’unica war artist della lotta di Liberazione, una “reporter di guerra con cavalletto e pennello” la definì il generale Carlo Oberti. Figura e donna straordinaria, laureata all’Accademia delle Belle arti di Firenze, insegnante elementare, già prima della guerra viene trasferita a Boves, allora piccolo villaggio del Cuneese, nella scuola di San Giacomo, la più alta delle frazioni del borgo, nel bel mezzo della montagna che sovrasta l’intera provincia, la Bisalta. Il suo impegno da partigiana e “artista della Resistenza” le sono valse l’onorificenza di Cavaliere al Merito della Repubblica.
Adriana ci ha lasciato un diario e 160 opere pittoriche, che rappresentano dettagliatamente i venti mesi della Resistenza. Il Presidente della Repubblica Pertini, dopo aver visto i suoi quadri scrisse nell’introduzione al catalogo della mostra permanente ospitata nel Museo della Resistenza di Boves: “È la testimonianza migliore, resa senza un briciolo di enfasi o di retorica, della realtà di un movimento che nacque dalla rivolta di uomini semplici, usciti da ogni classe sociale, animati dalla ideologie più diverse, mossi esclusivamente da un’esigenza di libertà e di giustizia, dall’odio per il nazifascismo, dall’amore per la patria calpestata”.
È a San Giacomo che già i primissimi giorni dopo l’8 settembre 1943 Adriana vede arrivare i primi soldati della IV Armata che, rientrati in treno dalla Francia e bloccati dai nazisti alla stazione di Cuneo, erano scappati all’ingiunzione fascista di prestare giuramento alla repubblica di Salò e arruolarsi nelle truppe collaborazioniste oppure di essere deportati in Germania. La Bisalta era il baluardo più vicino per rifugiarsi.
Adriana vedrà arrivare decine e poi centinaia di soldati che costituiranno la prima Banda di Boves, comandati da Ignazio Vian, futura Medaglia d’Oro al Valore Militare alla memoria, e assisterà alla prima strage nazifascista d’Italia, il 19 settembre 1943. La descrive in numerose pagine del suo diario, raccogliendo diverse testimonianze.
Il diario e la mostra pittorica si compensano a vicenda e documentano la tragedia della guerra per i partigiani e per la popolazione. Boves è una delle poche località italiane ad aver ottenuto sia la Medaglia d’Oro al Valore Militare sia quella al Valor Civile, proprio per la straordinaria accoglienza che gli abitanti riservarono ai partigiani, nascosti in case, fienili, stalle, protetti e mai denunciati nonostante il terribile rischio che sapevano di correre.
Le opere di Adriana Filippi testimoniano inoltre il rapporto di fratellanza fra Adriana e i partigiani che lei, insieme alla madre Mariangela, curava e aiutava, facendosi molte volte staffetta, trasportando e consegnando messaggi e pacchi. I quadri venivano abbozzati mentre i fatti stavano accadendo e completati più tardi. Diverse le battute che si scambiavano mentre lei dipingeva i partigiani.
Si legge nel diario: «Vian, vista la scena [dice]: “I modelli, fino a quadro finito, agli ordini della signorina, gli altri ai nostri”. Franco, l’altro comandante, conta le figure sul quadro, poi: “Caro Vian – con la sua solita schietta risatina – agli ordini della signorina ne restano nove, ai nostri tre!”. E in un’altra occasione, Franco: ‘Ho capito, allora sospendiamo la guerra fino a quadro finito!’”. Non c’era un granché per divertirsi, ma gli animi erano forti e ridere, anche per poco, li sollevava dalla tragedia che stavano vivendo.
Dalle scene collettive il passo fu breve per arrivare ai ritratti, straordinari, che ogni partigiano voleva farsi fare da lei. Questi però erano più rischiosi perché erano veri e propri identikit e, se entrati in possesso dei nazisti, avrebbero fatto identificare i combattenti. Fu così che Vian diede ordine ad Adriana di abbozzare soltanto i ritratti e di seppellirli nel bosco in due grosse casse. Il patto era che sarebbero stati terminati alla fine della guerra. E così è stato.
Una testimonianza vivida che ancora oggi, a quarant’anni dalla scomparsa dell’artista (Roma, 1982) continua a comunicare in modo fulminante gli orrori della guerra.
Oggi, ogni volta che accompagno a visitare la mostra persone che stanno scappando dalle guerre attuali, succede: restano impietrite, colpite da scene, sguardi fieri, a volte tristi, a volte allegri . E ognuna di loro mi dice: “È quello che sta succedendo ora!”.
Enrica Giordano, componente del direttivo provinciale Anpi Cuneo e già coordinatrice della Scuola di pace di Boves
Pubblichiamo un estratto dal diario personale di Adriana Filippi, preziosa testimonianza storica dove riferisce del 20 settembre ’43 e di ciò che il comandante Bartolomeo Giuliano le racconta del primo eccidio di Boves, compiuto il 19 settembre 1943. Il borgo, oggi divenuto una cittadina, verrà nuovamente bruciato fra il 31 dicembre ’43 e il 2 gennaio ’44.
«Là di tedeschi non ve ne sono più e Boves è illuminata dalle fiamme, sembra giorno. I sinistrati tentano di isolare il fuoco, tentano lo spegnimento facendo catena coi secchi, chi lancia acqua a casaccio…
Finalmente arrivano i pompieri locali e pompieri diventano tutti i bovesani, servendosi della roggia che attraversa il paese, nel quale è tutto un vociare di gente invocante e di animali gementi, vaganti nelle vie o ancora chiusi nelle stalle.
Prima di raggiungere la grotta passo da casa mia per dare agli amici la triste notizia: “Purtroppo… di tutte le prime case incendiate nessuna è salva!”.
Arrivo alla grotta stanco e affranto. Mamma mi porta pane e latte: mette pane, mangio pane, aggiungo pane, mia mamma aggiunge latte, io non me ne accorgo perché intento a guardare fuori, sul limitare della grotta, mio padre, il cui viso è illuminato ad intervalli dai bagliori di Boves in fiamme, che arrivano fin lì malgrado la lontananza. Mi addormento. Nel sonno sento la mano leggera della mamma che mi toglie gli scarponi. Non so quanto ho dormito, quando sento una voce che mi sussurra all’orecchio: “…è ora! …la tua postazione ti aspetta!” “…eh…? …chi è che mi aspetta?” ancora con gli occhi chiusi. La voce ripete: “…la tua postazione… – è mio padre che mi porge la solita scodellona di latte e un altrettanto grossa pagnotta – “…mangia e poi va’ senza svegliare mamma, sarà meglio… ti ha messo tutta la nostra provvista nello zaino e nel sacco da montagna, pensando che non sarà tutto per te!”.
“Al limitare delle nostre postazioni ci incontriamo tutti noi bovesani, puntuali, malgrado qualcuno abbia la casa distrutta e abbia lavorato tutta la notte nel vano tentativo di salvarla…”.
Vian è in piedi sul muricciolo attorniato dagli ufficiali. Con voce chiara: “Peiper, ieri mattina e di nuovo stamattina, inviò emissari per invitarci alla resa. Ieri abbiamo risposto: “No!”. Oggi ho risposto al maresciallo e al brigadiere dei carabinieri che intendevo chiamare a consiglio tutti: ufficiali, sottufficiali e anche i soldati, perché qui non siamo militari in servizio obbligatorio, siamo tutti volontari, perciò mi sarebbero occorse ventiquattro ore di tempo. Ora, io non sono per la resa, direi di rendere le armi…”.
Voci di soldati, mormorii di ufficiali lo interrompono: “No!” “Noooo!” “…nienteeee!!” “Ne abbiamo bisogno noi!!!” “…cosa facciamo, qui, senz’armi…!!!”.
Vian alza la mano, tutti fanno silenzio, e lui, con un abbozzo di sorriso: “…volevo dire… quelle inservibili! Chi è d’accordo sta con me, chi non è d’accordo è libero di lasciare la valle!”.
Tutti: “D’accordoooo…” “…lei sarà il nostro comandante!”.
Tutti gli altri ufficiali lo confermano: “È una decisione presa all’unanimità senza esserci consultati!” gli dicono.
Vian risponde serio e grave: “Va bene, accetto perché ieri ho visto come vi siete comportati”.
Il pomeriggio arrivano il parroco e la fantesca. “Reverendo – gli diciamo – potremmo scendere fino a Castellar dal cappellano, lui, più vicino a Boves, saprà qualcosa di più di noi”.
In casa del cappellano c’è gente di Boves. Un tale racconta i fatti visti e subiti, dice: “Sono arrivati di sorpresa, i tedeschi, non abbiamo fatto a tempo ad andarcene. Con i nostri occhi abbiamo visto incendiare con lanciafiamme, con fiammiferi, prendere il nostro parroco e il signor Vassallo, farli salire su di un camion e portarli in giro per il paese a vedere lo spettacolo dell’incendio, poi gettarli giù davanti alla casa, davanti alle scuole, noi ci siamo nascosti, cospargerli di benzina, spingerli dentro, dar loro fuoco, chiudere la porta, incendiando così quella casa con quei due infelici in fiamme.
Le SS correvano qua e là come indemoniati, ammazzando tutti gli uomini giovani e vecchi che incontravano, tentanti di portare in salvo le loro masserizie o di spegnare le fiamme, li snidavano dalle loro case per ammazzarli sulla via.
Sentivamo solo grida, lamenti umani che si confondevano con i lamenti degli animali che bruciavano nelle stalle o fuggivano perché il padrone aveva fatto in tempo [ad] aprire loro la porta.
Il viceparroco che trainava un carretto su cui [erano] due vecchi cronici per salvarli, hanno sparato e colpito giusto”.
“Hanno… ucciso anche lui?” interrompono ad una voce i due sacerdoti “Sì!” risponde con un cenno di capo il narratore che, angosciato, non può parlare. Poi riprende: “I pochi uomini rimasti o dovuti rimanere in paese, fortunatamente vivi, io compreso, appena via i tedeschi, andiamo a raccogliere i nostri compaesani assassinati nelle vie, nelle strade. Stamane, salendo quassù, abbiamo visto, fino al punto in cui avvenne la battaglia, bovini, ovini, maiali morti o vivi pascolanti spauriti, inselvatichiti per la nottata trascorsa all’aperto. Impossibile avvicinarli, conoscevano appena appena i padroni”.
Il bovesano ha finito il suo racconto, restiamo tutti in silenzio: sono fatti di poche ore prima, l’animo nostro ne è tutto pervaso e le narici sentono odor di bruciato…».
Pubblicato sabato 2 Aprile 2022
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