Non sono poche le opere d’arte divenute iconiche, simboli universali di valori condivisi dai più. Sono quadri conosciuti in tutto il mondo, lavori che nel tempo sono riusciti a veicolare i più disparati messaggi. Alcuni di questi ci fanno commuovere, altri rimanere senza parole per la loro forza e bellezza. E soprattutto, con un alfabeto estetico intuitivo e umano, ci hanno trasmesso quell’emozione speciale che è la consapevolezza di essere cittadini. È anche per questo che le opere d’arte sono fondamentali, espressione del bello e della capacità di comunicare con immediatezza significati profondi, stimolo continuo per i nostri sensi e la nostra sensibilità, ma anche mezzo attraverso cui possiamo prenderci cura della nostra educazione civica.
In questo senso, l’opera d’arte più conosciuta è probabilmente Guernica di Pablo Picasso, realizzata dall’artista spagnolo come reazione al bombardamento aereo nazifascista sulla città basca di Gernika. La tela è divenuta il simbolo dell’insensatezza e degli orrori della guerra, rappresentazione cruda della barbarie. Di opere ne potremmo citare molte altre: da Il Quarto Stato di Giuseppe Pellizza da Volpedo, emblema della condizione della classe operaia, ai Mangiatori di patate di Vincent Van Gogh, denuncia delle misere condizioni in cui versavano i contadini dell’epoca, da La Libertà che guida il popolo di Eugène Delacroix alle recentissime opere dello street artist Banksy, ciascuna portavoce di un forte messaggio di denuncia sociale.
Un’immagine in particolare è divenuta l’emblema del riscatto della condizione femminile: la rappresentazione dell’episodio biblico di Giuditta e Oloferne. Nella storia sono rari i personaggi femminili dotati di piena autonomia: nella maggior parte dei casi, infatti, le donne (anche quelle più libere) vengono associate a un uomo che le sostiene o che permette loro di affermarsi. Al contrario, Giuditta, secondo il racconto dell’Antico Testamento, sola con il suo coraggio salva la città tagliando di netto la testa di Oloferne, il generale che guida l’assedio nemico.
Per noi, aprire un dialogo con quest’opera significa non soltanto conoscere lo stile di chi l’ha dipinta, ma anche e soprattutto riflettere sulla “questione femminile” che, negli anni, ha portato le donne a combattere per i propri diritti, fra lotte, conquiste e sconfitte.
La figura di Giuditta è diventata nell’arte il simbolo dell’autonomia femminile, immortalata nella sua impresa dai più grandi pittori, fra cui Andrea Mantegna (opera conservata alla National Gallery of Art di Washington), Caravaggio (Palazzo Barberini a Roma), Pieter Paul Rubens (Galleria degli Uffizi di Firenze) e Klimt (Galleria Belvedere di Vienna).
Ma è soprattutto con la rappresentazione dell’artista seicentesca Artemisia Gentileschi (1593-1653) che l’immagine di Giuditta diventa un’icona universale. Donna forte e risoluta, ha sfidato le regole della sua epoca ed è diventata l’artista più credibile a incarnare i valori dell’autonomia femminile.
Dopo essere stata vittima di uno stupro a diciassette anni, attraverso l’arte ha trovato il proprio riscatto, utilizzando la leggenda di Giuditta per esprimere la rabbia e l’odio nei confronti della prevaricazione maschile. Con passione e determinazione, sulla scia della rivoluzione caravaggesca, ha realizzato giuditte vendicatrici, donne che non hanno paura di esprimere il proprio desiderio di giustizia. Possiamo considerarla la prima artista femminista, capace di denunciare una violenza e di rivendicare giustizia, in un’epoca in cui le donne non godevano di alcun tipo di diritti.
Ma Gentileschi, con le sue opere, ha sottolineato anche il diritto all’autodeterminazione, alla possibilità da parte della donna di esprimersi attraverso l’arte solo in virtù delle proprie capacità e non per “gentile concessione” di un uomo.
Nella prima metà del Seicento, ha compiuto una vera e propria rivoluzione, diventando l’esempio concreto di come anche una donna possa ambire al ruolo sociale di pittrice e aprendo la strada ad altre giovani che, come lei, desideravano essere artiste.
Nel Novecento, il taglio della testa di Oloferne ha iniziato a rappresentare la rivendicazione di un modello di società diverso da quello patriarcale: in particolare, negli anni Settanta, Artemisia è diventata un simbolo del femminismo internazionale, promotrice della figura di una donna impegnata ad affermare se stessa e che lotta contro i pregiudizi della società in cui vive.
L’eredità di Gentileschi è stata tale da continuare a ispirare le artiste delle generazioni successive, come la svizzera Angelika Kauffman (unica donna fra i fondatori della Royal Academy of Art di Londra), l’impressionista Berthe Morisot, dalla polacca Tamara de Lempicka (che si ritrae nel 1929 alla guida della sua automobile in Autoritratto sulla Bugatti verde) alla messicana Frida Kahlo (che lega all’attività di pittrice l’impegno politico, con l’obiettivo di trasformare la sua arte “in qualcosa di utile per il movimento rivoluzionario comunista”).
La lista delle donne nell’arte non si esaurisce qui, ricordiamo ancora Gina Pane, figura di primo piano della body art degli anni Settanta, la statunitense Barbara Kruger, capace di farci riflettere su temi politici e sociali attuali, Marina Abramović, probabilmente l’artista contemporanea più famosa, la fotografa concettuale Cindy Sherman, la performer Vanessa Beecroft e la fotografa statunitense Francesca Woodman. Tutte donne che, con passione e determinazione, hanno simbolicamente tagliato la testa ad Oloferne, proponendo una riflessione originale sulla società. Come Giuditta, queste artiste si sono rese promotrici di una trasformazione estetica e culturale, incarnando in prima persona l’alternativa a un modello maschile dominante.
Sono artiste che, con la loro attitudine, hanno mostrato ad altre donne la capacità di essere libere, esprimendo il proprio senso dell’esistenza. La storia di Giuditta ed Oloferne, con il suo forte simbolismo, ha continuato ad interpretare lo spirito moderno del cambiamento femminile, uno spirito che dovrebbe essere compreso, accolto e incoraggiato anche dagli uomini, superando l’antagonismo di genere, e rivendicando collettivamente un cambiamento dello stare insieme nella società.
Un’opera come Giuditta e Oloferne e, più in generale, una figura come quella di Artemisia Gentileschi dovrebbero indurre alla riflessione, proponendo un nuovo modello di donna, che non solo auspica, ma si batte per il raggiungimento di un’uguaglianza compiuta, sul piano legislativo, lavorativo e dei diritti civili.
Perché ancora oggi, ci si trova a constatare una disparità in essere che, per alcuni, è uno degli effetti collaterali del capitalismo. Per la filosofa americana Nancy Fraser il capitalismo è economicamente fondato non soltanto sullo sfruttamento del lavoro in generale, ma anche sul lavoro non pagato delle casalinghe, dalla cura dei malati all’assistenza agli anziani di famiglia, dall’impegno quotidiano con i figli alla cura della casa: attività che, seppur indispensabili, non sono sostenute da alcun tipo di retribuzione e contribuzione. E così, come Giuditta, le donne devono prendere coraggio e non accontentarsi della condizione minoritaria in cui troppo spesso vivono, costrette ad accettare salari più bassi degli uomini, a scegliere fra maternità e lavoro e vedere la propria vita in posizione di subalternità alle figure maschili. Ancora oggi, Giuditta ci insegna che una società democratica deve tutelare i diritti anche dei più deboli, che la serenità di un popolo risiede nel benessere di tutti, e che chiunque deve condannare prevaricazione e violenza.
Francesca Gentili, critica d’arte
Pubblicato domenica 7 Marzo 2021
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