Non è raro che un’opera d’arte diventi un simbolo, una bussola con la quale orientare il proprio pensiero e le proprie convinzioni. Fra i casi più noti, conosciamo tutti Guernica di Pablo Picasso, manifesto di pace contro le guerre e le prevaricazioni sui popoli da parte del fascismo. Come pure l’iconico quadro dei lavoratori Il Quarto Stato di Giuseppe Pellizza da Volpedo (link Patria) e, spingendoci oltralpe, La libertà che guida il popolo del francese Eugène Delacroix (link Patria), simbolo di lotta contro l’oppressore. Su un piano più concettuale e meno conosciuto, possiamo annoverare fra queste fila anche un’opera realizzata cento anni fa da Paul Klee (1879-1940), artista tedesco di natali svizzeri.
Si tratta dell’Angelus Novus (1920), olio e acquarello su carta montata su cartone, dove la meditazione interiore del suo autore rivela alcuni significati cardini tuttora attuali. Klee, a partire dal 1913, dedica alla figura dell’angelo numerosi lavori, caricando la ricerca figurativa di significati allo stesso intimi e collettivi, come la superiorità del divenire sull’essere, del brutto sul bello, della purezza dei bambini e degli artisti rispetto agli adulti civilizzati.
L’angelo di Klee, al contrario della tradizione religiosa, non è bello, immortale: è appuntito, spigoloso, è imperfetto e poco spirituale, molto vicino alla condizione mortale dell’uomo. L’angelo non sa neppure volare, ha ali molto piccole, anche se, provvisto di due piedini con artigli, con fatica cerca di avvicinarsi al Paradiso. L’angelo ha una mente quanto mai lucida, centrata: sa guardare alle cose senza veli e mistificazioni. Un po’ come riescono a fare i bambini. È un’immagine in conflitto fra la sua aspirazione ideale e la sua condizione terrena. Questo angelo sa parlare agli uomini, rivelando, senza falsità, la verità delle cose, quella verità che spesso in molti vogliono ignorare, sedotti più dagli interessi personali che della giustizia collettiva.
Il primo ad accorgersi dell’Angelus Novus è il filosofo tedesco Walter Benjamin, che lo acquista a Monaco alla fine di maggio nel 1921, facendolo diventare il suo angelo guida, un riferimento su cui incentrare le proprie riflessioni. «C’è un quadro di Klee – scrive il filosofo nelle sue “Tesi di filosofia della storia” – che si chiama Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui si fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese, L’angelo della storia deve avere questo aspetto Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è cosi forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta». L’angelo di Klee è dunque un angelo della storia, è molto umano e poco divino, è nuovo, in divenire; è un’entità «rapace che libererebbe gli uomini portando loro via le cose piuttosto che renderli felici dandogliene».
In questa prospettiva, Klee viene considerato un artista innovativo, la cui poetica si basa sul purificare la vita moderna eliminando ogni eccesso. E il suo angelo, difatti, non fa doni, ma ammonisce e suggerisce di togliere il superfluo. La lettura che Benjamin propone dell’angelo di Klee è frutto, ovviamente, della sua storia. Il filosofo di scuola marxista, morto suicida nel 1940 per evitare di essere catturato dai nazisti, è quanto mai critico verso la società dei consumi. Ed ecco l’estrema attualità dell’opera di Klee, nella quale possiamo cogliere l’opportunità di pensare al nostro tempo con occhi diversi. L’Angelus Novus ci suggerisce che per essere liberi dobbiamo liberarci dagli eccessi, e non soltanto in senso figurato. L’angelo ci dice che non possiamo continuare a vivere così, con un sistema economico e sociale non compatibile con i diritti umani. La società dei consumi, della produzione senza limiti, dello sfruttamento disonesto della natura crea un mondo immorale e senza scrupoli, i cui frutti sono alla mercé di pochi. Il canto dell’angelo è nuovo e prefigura la nostra salvezza solamente se saremo in grado di essere più umani.
«L’arte – afferma l’artista – non riproduce ciò che è visibile, ma rende visibile ciò che non sempre lo è», proprio come questo Angelo.
L’opera di Klee, nel tempo, grazie alla lettura e alla sensibilità di chi l’ha osservata e interpretata ha assunto un significato universale. Ed è impossibile apprezzare la ricchezza della fantasia dell’artista da una sola opera. Del resto le sue abilità sono innate: fin da piccolo sa che vuole dipingere e meditare sulle forme e sui colori. E, ben presto, la sua poetica si caratterizza per uno stile formale infantile, con scelte coloristiche irreali, quasi oniriche. «Presa nel suo complesso – commenta Giulio Carlo Argan – l’opera di Klee è una specie di diario della propria vita interiore o profonda: di tutto ciò che è rimasto allo stato di impulso o motivo, e non si è tradotto in causa di determinati effetti, non ha fatto storia». Klee non rappresenta, visualizza e, come un ricercatore, rende visibile ciò che è invisibile, formando un legame inscindibile con la realtà. Pittore, musicista (è un violinista abilissimo), filosofo dell’arte, Klee è un artista veggente che indaga i misteri del mondo, facendo propria la lezione dei maestri del passato, fra cui Leonardo Da Vinci, Paul Cézanne, Vincent Van Gogh.
All’artista interessa la genesi del mondo, il suo formarsi e trasformarsi: «L’arte – scrive nel saggio Confessione creatrice, nel 1918 – non riproduce il visibile, ma rende visibile. La natura dell’arte grafica conduce facilmente e legittimamente all’astrazione. Allora si rivela il carattere fantomatico, mitico, quello che gli occhi della fantasia possono scorgere: e si manifesta con una grande precisione. (…) Un tempo si rappresentavano le cose che erano visibili sulla terra, la cui vista ci procurava piacere o che avremmo avuto piacere di vedere. Oggi la relatività delle cose visibili è nota, di conseguenza consideriamo come un articolo di fede la convinzione secondo la quale, in rapporto all’universo, il visibile costituisce un puro fenomeno isolato e che ci sono, a nostra insaputa, altre numerose realtà. Le cose hanno un significato più ampio e più vario, spesso in apparente contraddizione con l’esperienza razionale di ieri. Vogliamo rendere essenziale ciò che è casuale».
Questo saggio, che definisce la poetica dell’artista, sarà alla base dei primi corsi che Klee terrà al Bauhaus, la scuola superiore d’arte democratica fondata dall’architetto Walter Gropius a Weimar nel 1919 e chiusa dal regime nazista nel 1933. Nei primi anni di insegnamento Klee si interessa all’elaborazione di leggi formali capaci di essere da supporto all’apprendimento degli allievi. La lezione del maestro spiega come le cose debbano avere forma e senso e che la funzione dell’immagine consiste nell’esprimere qualcosa. L’artista ha un ruolo estremamente importante nella scuola, soprattutto per la sua capacità di sviluppare le doti interiori degli studenti. «Quasi come un mago – afferma nel 1931 un suo allievo, Christof Hertel – Klee trasformava per noi con lo sguardo, con la parola, col gesto l’irreale in reale, l’irrazionale in razionale. Cose che esistevano solo nel sentimento divenivano graficamente determinabili. Imparavamo a vedere che la figurazione primaria della superficie non aveva nulla a che fare con la semplice riflessione, ma era il prodotto del sentire più profondo».
Nell’autunno del 1933, Klee lascia la sua cattedra e abbandona la Germania per scappare dai nazisti che lo accusano di essere ebreo e straniero. La sua opera, come quella di molti suoi colleghi, è anche definita dai nazisti (sostenuti da buona parte della borghesia tedesca) “arte degenerata”, «una beffa culturale ebreo-bolscevica». Klee, quindi, si trasferisce a Berna e schizza su un foglio la figura di Hitler, un piccolo e meschino uomo con gli occhi da psicopatico. Nel 1933, poi, si autoritrae nel Radiato dalla lista, dove appare sotto forma di maschera africana senza espressione e con una grossa X che ne cancella l’identità.
Il lavoro di Klee è imponente, circa novemila e cinquecento opere, e riesce a coinvolgere lo spettatore per la sua abilità di «portare una linea a fare una passeggiata», con eleganza, semplicità e contenuto. Con la sua sensibilità raffinata, l’artista porta alla luce le relazioni fra luoghi, forme e colori della natura. E lo fa con giocosità e rigore geometrico, muovendosi in una dimensione astratta e anticipando il surrealismo. Klee è capace di creare narrazioni visive (i tratti grafici) e verbali (i titoli delle opere) così suggestive da permettere a molti suoi ammiratori di proiettare su di esse le proprie interpretazioni, proprio come è successo a Benjamin.
Con l’Angelus Novus il filosofo, come abbiamo visto, prende spunto per riflettere sugli effetti distruttivi della società capitalista. E visti i tempi, con dati differenti e più attuali, anche noi potremmo fare lo stesso.
Francesca Gentili, critica d’arte
Pubblicato venerdì 6 Marzo 2020
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