Giulio Carlo Argan nella prefazione al volume Pier Paolo Pasolini. I disegni 1941/1975 (a cura di G. Zigaina, con saggi di G. C. Argan e di M. De Micheli e con una poesia di A. Zanzotto) scrive che gli scrittori “sentono il bisogno di disegnare e dipingere” in contrapposizione alla “sofisticata immaterialità delle loro tecniche” espressive. Il noto storico dell’arte riteneva che Pasolini, come molti altri poeti e scrittori, avvertisse la necessità di “materializzare” le parole espresse prima in versi. Cosa che per altro il poeta conferma dicendo “la mia pittura è dialettale: un dialetto come lingua per la poesia”.
Pasolini era un “pittore consapevole” con la volontà di essere pittore. Tale convinzione è dimostrata dalle parole del suo biografo, l’artista e amico Zigaina: “È un fatto che negli anni 1946-’47 ci trovammo fianco a fianco, e con la stessa trepidazione, a esporre in mostre di una certa importanza, insieme ad Afro (uno dei maggiori pittori astratto-naturalistici italiani che ha lavorato negli ultimi suoi anni negli Stati Uniti ndr) e a De Pisis (…)”.
Quindi secondo l’artista le opere di Pasolini “non vogliono essere presentate come le opere di un pittore tout court che la critica debba ancora scoprire, ma come un ulteriore contributo alla conoscenza della complessa personalità del poeta e del regista, dalla cui attività traspare in ogni momento l’appassionato interesse per l’immagine” (dalla prefazione di Giancarlo Pauletto al catalogo della mostra Pasolini Pittore a Casarsa ed. centro studi “Casarsa della Delizia”).
Si legge in poche righe indirizzate all’amico Luciano Serra nell’estate del 1941 la volontà di intraprendere l’attività di pittore: “Io leggo poco, dipingo molto in compenso: 6 quadri finora, di vario valore, di cui almeno due mi sembrano buoni: i miei migliori. Ho raggiunto una tavolozza mia, ed anche una mia maniera. Spero di continuare su questa maniera senza stupidi mutamenti da dilettante”. Senza stupidi mutamenti da dilettante scrive. Sono gli anni dell’università, delle lezioni di estetica e di storia dell’arte tenute dal grande storico Roberto Longhi (al quale chiese e ottenne di preparare, in un primo momento, la tesi di laurea, alla quale rinunciò scegliendo poi Pascoli come tema della tesi definitiva).
Che però Pasolini nel 1962 decidesse di dedicare la sua seconda opera, Mamma Roma all’elegante storico dell’arte Longhi non era poi cosa così scontata. Da un lato il neorealismo, la storia di una prostituta in fase di redenzione e contro il suo passato che non scompare mai, dall’altra uno storico e critico dell’arte raffinato, che aveva dato nuovi impulsi vitali alla critica d’arte del Novecento.
Cosa avrebbe potuto mai legare queste due forti personalità? Non certo le sole frequentazioni universitarie e le riflessioni su una possibile tesi di laurea, né – credo – il solo affetto intellettuale di Pasolini verso il maestro: “Se penso alla piccola aula (con banchi molto alti e uno schermo dietro la cattedra) in cui ho seguito i corsi bolognesi di Roberto Longhi, mi sembra di pensare a un’isola deserta, nel cuore di una notte senza più luce.
E anche Longhi, che veniva e parlava su quella cattedra, e poi se ne andava, ha l’irrealtà di un’apparizione. Era, infatti, un’apparizione. (…) Allora, in quell’inverno bolognese di guerra, egli è stato semplicemente la Rivelazione”. (Da Cimabue a Morandi, in Tempo, 1973).
Il fascino che il riscopritore di Caravaggio ha esercitato sul giovane studente friulano deve essere stato particolarmente intenso. Soprattutto per un giovane che descrisse la realtà culturale in quell’angolo nordorientale d’Italia con queste parole: “Nessuno potrà affermare che la capitale friulana possa vantarsi d’essere, culturalmente, ad un posto d’avanguardia, con il suo sparuto e retrivo gruppo di letterati (che vanno divulgando sul Popolo del Friuli le loro magre e confuse nozioni) e col suo vecchio centro filologico sopravvissuto a una rigorosa tradizione e – come dimostra lo stanco ce fastu – ora in tempo di magra. Una mostra di pittura quindi ci sembra non potere tradire tale ambiente culturale, anzi esserne pienamente e infelicemente partecipe”. Testo che, proprio nel giudizio espresso non può non rimandarci allo stile critico del suo maestro.
Longhi fu lo storico dell’arte che collocò Caravaggio nel giusto ruolo artistico e che, con la sua importante mostra del 1951, indirizzò lo sguardo dello spettatore verso una narrazione realistica della società. Forse è questo che ha guidato il pittore Pasolini prima, e il regista poi, nei suoi innumerevoli tableau vivant rappresentati nei suoi film. Memorabile l’inquadratura del giovane Ettore legato al tavolaccio della prigione ripreso come il Cristo morente del Mantegna.
E, in difesa delle disparate opinioni dei critici, Pasolini invocò il suo maestro: “Ah, Longhi, intervenga lei, spieghi lei, come non basta mettere una figura di scorcio e guardarla con le piante dei piedi in primo piano per parlare di influenza mantegnesca! Ma non hanno occhi questi critici? Non vedono che bianco e nero così essenziali e fortemente chiaroscurati della cella grigia dove Ettore (canottiera bianca e faccia scura) è disteso sul letto di contenzione, richiama pittori vissuti e operanti molti decenni prima del Mantegna? O che se mai, si potrebbe parlare di un’assurda e squisita mistione tra Masaccio e Caravaggio?” (Pier Paolo Pasolini, Vie Nuove, 4 ottobre 1962).
La pittura, dunque, è sempre stata nel cuore del regista. A dimostrazione di questa passione, valga per tutte le innumerabili citazioni di opere d’arte la sua interpretazione del sommo Giotto nel Decameron. Questa passione corre contemporaneamente su un binario parallelo, uno teorico e l’altro pratico: da un lato Longhi e dall’altro la lezione di tecniche pittoriche dell’artista “realista” di San Vito al Tagliamento, Federico De Rocco (assistente all’Accademia di Belle Arti di Venezia di Saetti e più volte ospite alla Biennale di Venezia e alla Quadriennale di Roma).
Insegnamenti che lo portarono, per esempio, anche a restaurare – strofinando per giorni e giorni cipolle sui muri fino a far riaffiorare gli affreschi da sotto uno strato di scialbo – e scoprire le pitture medioevali della chiesetta di Versuta, frazione di Casarsa, dove Pasolini svolse i suoi primi incarichi da insegnante elementare e dove fondò l’Academiuta de lengua furlane, dedicata al fratello partigiano Guido “esempio di eroismo sconsolato e di muto entusiasmo”.
I suoi interessi culturali e politici lo portarono poi a stringere amicizia con Giuseppe Zigaina, uno dei più significativi pittori del cosiddetto “neorealismo friulano” (una sua imponente opera si trova all’Anpi nazionale a Roma) nonché scenografo nei film Teorema e Medea e, insieme a Nico Naldini, uno dei biografi più importanti del poeta e regista friulano. Non stupisce dunque se Pasolini dedicò buona parte del suo impegno culturale alla pittura esplicitata in centinaia di opere, 25 delle quali sono ora esposte permanentemente presso il centro studi P. P. Pasolini a Casarsa.
“La prima osservazione che si può fare, rispetto ai lavori pasoliniani qui presenti, è che si conferma in essi quella tensione espressionista cui avevamo già accennato e che è, per così dire, consustanziale ai suoi modi operativi in tutti i campi d’impegno, ma qui basterà riferirsi a qualcuna delle poesie scritte a Casarsa, negli stessi anni in cui furono realizzati pitture e disegni”, scrive Pauletto, ancora una volta confermando la commistione tra la lirica (parola) e la figura (pittura).
E questo binomio è chiaramente visibile in molte opere esposte a Casa Colussi a Casarsa (sede del Centro Studi) assieme ai disegni della mostra temporanea Pasolini. I disegni nella laguna di Grado (a cura di Agostinelli), opere realizzate nell’ambiente lagunare di Grado durante la lavorazione del film Medea. Tra questi disegni, che già denotano una certa maturità tecnico-compositiva, una pregevolezza segnica e un uso personale della materia pittorica (così scrive “ho bisogno di una materia espressionistica, senza possibilità di scelta”), si evidenziano due particolari profili di Maria Callas, Medea nel film.
Lasciamo allo spettatore, davanti ai dipinti in mostra, il compito di apprezzare stile e contenuto, ma è d’obbligo citare almeno alcune delle opere più significative per la personalità dell’artista. Particolarmente rappresentativi sono tre disegni in china su carta: Putto del ’43, che ritrae un giovane con un violino tra le gambe (certamente un ricordo dell’amica violista slovena, Pina Kalč, sfollata a Casarsa e, come Naldini ricorda, innamorata del poeta).
Un singolare affetto familiare è espresso poi ne La madre allo specchio nel quale ritrae sua mamma Susanna nell’intimo atto di truccarsi. Infine, Giovanna (Bemporad) in osteria a Orcenico, del ’43 dove la poetessa, già studentessa con lui al liceo Galvani di Bologna, viene ritratta davanti a due bicchieri e una caraffa vuoti.
Pasolini in queste significative pitture esprime la sua vicinanza alla corrente artistica dell’Espressionismo, peraltro periodo della storia dell’arte che aveva trovato negli anni precedenti una grande attenzione da parte di molti artisti e di significativi storici di tutto il mondo. L’artista, attraverso un personale stile cromatico-compositivo (ne sono un esempio i materiali non propri della pittura, come rossetto, mozziconi, fondi di caffè, osso di seppia), mette così in evidenza alcuni aspetti socio-esistenziali della sua complessa personalità. A tal proposito citiamo Suonatori, Autoritratto in una stanza, Figura con fiore, Suonatrice di violino, tutti del biennio 1946-’47 e Giovane con violoncello del 1949. Come scrive Nico Naldini: “Una pittura che va oltre il quadro per attingere una realtà emblematica rivissuta in modo fortemente emotivo” (in Pierpaolo Pasolini in Dipinti, Vienna, 1991).
Diego Collovini
Pubblicato sabato 30 Aprile 2022
Stampato il 03/12/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/terza-pagina/forme/pasolini-ritorno-in-friuli-con-i-quadri/