Potere all’arte o potere dell’arte? In fondo, nessuna differenza. Dalla notte dei tempi l’immagine educa, ammalia, buca le menti e lo fa in modo istantaneo, improvviso, universale.
Non c’è suono che tenga, né parola, né gesto. L’immagine, quella forte, disinibita, reale e magari violenta, quella insensata e perché no, volutamente polemica, ha sempre sortito l’effetto sperato. Ha colpito, stordito, a volte ferito, anche i più distratti. Anche gli irriducibili dell’indifferenza portano impresse nella memoria immagini iconiche e indimenticabili.
Molte di queste sono, oggi, immagini prese al volo. Scatti. Fotografie. Flash. Che restano incisi nella nostra anima, che la modellano, la sfregiano. A volte la rompono in mille pezzi per poi ricomporla in una rinascita migliore, più forte e completa.
Nascono con la stessa intensità di scatti fotografici, spesso e volentieri proprio da questi ispirate e precedute nella creazione artistica, le opere scelte da Giovanna Ginex per realizzare Staging Injustice. Italian Art 1880-1917, collettiva di arte moderna inaugurata il 25 gennaio scorso, al Cima, Center for Italian Moderm Art, il museo d’arte contemporanea e centro di ricerca al 421 di Broome Street, Manhattan, New York e che sarà visitabile fino al 18 giugno.
Una sfida importante per la curatrice, scegliere le 30 opere più rappresentative della narrazione di un’Italia a cavallo tra Ottocento e Novecento – dipinti e sculture realizzati tra il 1880 e la fine della Prima guerra mondiale – sballottata tra la fine delle certezze imperialistiche e le nuove tensioni democratiche. Un’Italia nella quale, finalmente e con estrema fatica, pochi i successi duraturi a fronte del profondissimo impegno, come dimostreranno le spaventose dittature di lì a venire, i lavoratori prendono coscienza del proprio valore, dei propri diritti e dei propri meriti.
L’impeto con il quale operai e contadini si affacciano al mondo della rivolta, le difficoltà del loro quotidiano, l’energia delle loro azioni e la chiarezza delle loro rivendicazioni ispira il mondo dell’arte che, stanco della rappresentazione della altrettanto stanca e viziata élite alto borghese, alla quale molto spesso appartengono, si fa portavoce, manifesto, bandiera.
L’arte decide di cambiare oggetto della sua attenzione descrittiva: dal paesaggio-natura al paesaggio-uomo il passo è breve ma significativo. L’artista crea immagini innovative, educative, universali, difficili da dimenticare. Non vuole solo decorare, raffigurare, al massimo stupire: vuole fare la differenza, proporre nuovi punti di vista, scardinare la banalità.
Tutti provenienti da musei italiani e da prestigiose collezioni private, i capolavori scelti dalla curatrice, la storica dell’arte Giovanna Ginex – collaboratrice indipendente di molte istituzioni in Italia e all’estero e autrice di molteplici pubblicazioni, ultima delle quali “Sono Fernanda Wittgen – Una vita per Brera”, l’attenta e commossa biografia della prima direttrice della celebre pinacoteca, donna di eccezionale importanza per la Milano del suo tempo e Giusta tra le Nazioni – declinano, grazie alle molteplici qualità espressive dei tanti artisti, tutte le tonalità del contesto storico prescelto: la nuova presa di coscienza politica della classe lavoratrice, nei campi e nelle fabbriche, il dolore dell’emigrazione come unica scelta, le disuguaglianze sociali, la povertà, l’ignoranza.
È il meglio dell’arte italiana di fine Ottocento che sceglie di “armarsi” contro lo sfruttamento e l’ingiustizia e che, con toni più o meno accesi, nel rispetto delle singole sensibilità poetiche, sceglie la strada dell’educazione per immagini, della costruzione della consapevolezza.
Nella costruzione di un racconto della contemporaneità per immagini arrivano così a New York i capolavori sociali di Medardo Rosso, Emilio Longoni, Giuseppe Pellizza da Volpedo, Plinio Nomellini, Raffaello Gambogi, Telemaco Signorini, Giacomo Balla, Angelo Morbelli.
Una dopo l’altra le tele illustrano agli spettatori la storia dell’Italia che fu e la loro portata di denuncia civile è chiara fin dai titoli, volutamente descrittivi e suggestivi perché le intenzioni siano ben chiare, inequivocabili. Si dipanano lungo il percorso espositivo come in un’antologia di novelle veriste nelle quali i colori, il gesto pittorico, il punto di vista prendono il posto delle parole e della loro sintassi.
L’oratore dello sciopero arringa la folla dall’alto di un palo della luce, braccio alzato incurante dell’altezza e del pericolo, lontani i tetti delle case di città e il cielo azzurro. Le sue sono parole di forza e di incitamento, ci sprona a sognare un mondo migliore, il mondo che deve essere conquistato con l’aiuto di tutti. Lo stiamo ancora ascoltando da allora, da quel 1890 quando venne dipinto da Emilio Longoni, ora è proprietà della Banca di credito cooperativo di Barlassina, provincia di Monza, ma la strada è ancora lunga. Difficile. Impervia.
Onirica, senza sorriso né volto, riposa le sue Membra stanche nell’oro del tramonto che la avvolge, protettivo e portatore di una lontana speranza, la famiglia di emigranti ritratta da Giuseppe Pellizza da Volpedo nel 1907. Una tela dalle suggestioni narrative che in parte riportano al più famoso Quarto stato, le donne dal capo avvolto nei fazzoletti da lavoro, le camicie bianche dei contadini, la madre che allatta il proprio figlio, novella Maria, ma che dimostra una nuova epoca della creatività dell’artista, più mistica, moderna, universale. Tela davvero struggente, proprietà della Collezione fondazione Francesco Federico Cerruti per l’arte in prestito a lungo termine al Castello di Rivoli il Museo d’arte Contemporanea di Rivoli, in provincia di Torino.
Il tema dell’emigrazione, tanto caro a New York, a lungo la “terra promessa” dei nostri antenati, torna nella tela di Raffaello Gambogi Emigranti del Museo civico Giovanni Fattori di Livorno. Precisa nella descrizione della partenza per non più tornare, fagotti e bauli, borse e canestri, sottolinea l’improrogabilità della scelta, così come il pianto di chi resta, affranto, grave, inconsolabile. Partire per mai più tornare. Come tante migrazioni di oggi, drammatiche e definitive.
Simboliche per la rappresentazione del mondo del lavoro, soprattutto del mondo del lavoro al femminile, risultano le opere di Angelo Morbelli, divisionista piemontese innamorato della fotografia e dell’innovazione.
Il suo Vecchie calzette ritrae ciò che normalmente non si fa vedere in pittura: la vecchiaia, l’isolamento nelle case di riposo, il lavoro manuale faticoso e nascosto, la solitudine. Si tratta di una delle tele che compongono il suo Poema della vecchiaia che, dipinto tra il 1902 e il 1903, porta nuova attenzione al mondo dei dimenticati. Il capolavoro, che arriva alla mostra americana dalla collezione Cornèr Banca di Lugano, appare come un vero scatto fotografico in cui dal punto di vista centrale, la finestra che illumina il lavoro ai ferri del gruppo di anziane ospiti del Pio Albergo Trivulzio di Milano, ricovero per indigenti e sole, si apre la luce del giorno sull’insieme umano, cromaticamente connotato dalle decine di bianche chiome strette nei neri fazzoletti, dai rossi scialli, dalle rosee e stanche mani operose, dai candidi grembiuli, dai tanti e brillanti occhiali. Di grande impatto emotivo come la famosa Per ottanta centesimi! della collezione permanente della fondazione museo Borgogna di Vercelli. Una tela dalla forza polemica dirompente che ci racconta il lavoro di risaia volutamente in modo anonimo e da un punto di vista quasi irriverente, di schiena. Proprio per sottolineare quanto fosse ingiustamente esiguo il guadagno di queste donne, costrette a lavorare in risaia a schiena china dall’alba al tramonto, piedi nell’acqua tra sanguisughe e zanzare, per “soli” 80 centesimi, il pittore decide di ritrarle di spalle, immerse nel tramonto che avanza, senza volto né età, senza tempo. La loro fatica si “raddoppia” nel riflesso dei loro corpi in risaia e le loro gonne, dai blu quasi di lapislazzulo e dai gialli e rossi sbiaditi ma ancora caldi, come grandi fiori appena sbocciati, forse il colore che manca a una vita di stenti.
Sono queste solo alcune delle 30 opere scelte da Giovanna Ginex per la sua Staging Injustice. Italian Art 1880-1917, evento collettivo che mette in luce quanto la critica sociale e l’avanguardia pittorica siano state essenziali per la creazione nell’Italia a cavallo tra Ottocento e Novecento, di una coscienza politica nuova e moderna, trasversale ad ogni classe sociale e ad ogni gruppo culturale.
Opere che colpiscono per la modernità della forza evocativa e del coraggio civile che sprigionano, che sanno urlare al mondo quanto siano pesanti le ingiustizie in cui fa vivere tanti dei suoi figli e quanto altrettanto grandi e forti siano state, e dovrebbero essere ancora, le strade scelte per capire, opporsi, conquistare.
Per altre informazioni sulla mostra consultare il sito https://www.italianmodernart.org.
Elisabetta Dellavalle, giornalista, collabora con la Stampa
Pubblicato sabato 12 Marzo 2022
Stampato il 21/11/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/terza-pagina/forme/nella-grande-mela-i-miserabili-che-hanno-fatto-litalia/