Alessandro Mendini è stato un architetto e un designer di fama internazionale, autore di opere audaci e brillanti. Ha disegnato e creato architetture, oggetti, gioielli, ha scritto saggi, ha insegnato, realizzato quadri e sculture. Ha fondato e partecipato a movimenti culturali: Global Tools nel 1973, Alchimia nel 1979 e Memphis nel 1981. Ha ricevuto il Compasso d’oro due volte (nel 1979 e nel 1981) e l’onorificenza dell’Architectural League, a New York, nel 1983. Insieme al fratello Francesco ha dato vita a Milano all’Atelier Mendini progettando, solo per citare alcune strutture, la Paradise Tower di Hiroshima (1989), il Museo di Groninga (1989-14) e la Villa comunale di Napoli (1999). A poche settimane dalla sua scomparsa (è scomparso a Milano lo scorso 18 febbraio), è doveroso ricordarne il lavoro così significativo nel panorama artistico del nostro tempo. Fra le sue opere più apprezzate la Poltrona Proust, il celebre divano Kandissi e il cavatappi Anna G.
Mendini ha sempre considerato l’estetica per le sue opportunità tecnologiche: attraverso il sodalizio fra arte e tecnica ha creato immagini poetiche e utopistiche mediante le quali ha decorato il mondo sensibile e offerto, allo stesso tempo, emozioni in chi le guarda. La sua filosofia riprende ciò che, nei primi anni del XX secolo, aveva indicato il Deutscher Werkbund (Lega tedesca degli artigiani), voler cioè progettare per rendere il mondo più ospitale, più bello e più abitabile. Walter Gropius, in questo senso, nel 1913 aveva messo in luce la richiesta di bellezza della forma nella produzione di oggetti, sostenendo che «l’oggetto tecnico doveva essere permeato da un’idea spirituale, da una forma che gli garantisse di essere preferito fra la massa di prodotti dello stesso genere». Una forma dunque in grado di mantenere in sé l’idea artistica più pura e spirituale e, allo stesso tempo, grazie a questa, di arrivare efficacemente nel settore commerciale dell’industria.
Mendini ci riesce modulando trasgressione e gentilezza, determinazione e creatività. Il suo lavoro, basato sul rapporto intimo fra il progetto specialistico e l’ambito artistico, ha indagato, attraverso l’interdisciplinarità delle tecniche, le prospettive del design e dell’architettura. «Il mio lavoro – affermava l’artista – somiglia probabilmente alla mia vita, è un unico lavoro labirintico, una continua ricerca e un continuo andare e venire, ritornare sui propri passi, lavorare per parti e ottenere risultati attraverso degli spezzoni che un po’ assomigliano all’abito di arlecchino».
Le prime esperienze lavorative risalgono agli anni Settanta del secolo scorso, anni che lo hanno visto pioniere nell’elaborare linguaggi e temi innovativi, del tutto diversi dalla cultura allora in atto.
Mendini ha intrapreso una vera e propria rivoluzione del progetto, rompendo con le certezze del movimento moderno. Dopo la crisi energetica del 1973, infatti, si era diffusa la consapevolezza della fragilità del sistema produttivo occidentale, con la conseguente coscienza del bisogno di rinnovare le fonti di approvvigionamento ed energia. Il futuro non si sarebbe più potuto pensare secondo la logica dell’ordine e della razionalità. Così l’ottimismo del movimento moderno si era tramutato in euforia per il suo tracollo, rendendo alcuni artisti entusiasti per la ritrovata libertà creativa, non più succube di vincoli funzionalistici.
Se fino a quel momento la progettazione di design si fondava su criteri di origine razionalista, adatti a formare oggetti in serie per la grande industria, Alessandro Mendini, insieme alla generazione di Radical designer, aveva messo in crisi quel progetto, per realizzare oggetti diversi, banali, kitsch, soft. «Non lavoro – spiegava Mendini – per motivi direttamente ideologici, né per creare oggetti funzionali. La mia vocazione è un istinto: quello di cercare dentro e fuori di me (nella memoria, nella storia, nei luoghi e nelle persone) dei segnali visivi; e di elaborarli e di restituirli secondo una certa logica, di trasformarli in “realtà”».
Fin da subito, Mendini ha sentito la necessità di costruire un collegamento fra oggetto e persona, un rapporto umanistico, etico e spirituale. Il suo lavoro sorprende per la capacità di indagare molteplici aree (arte, tecnica, gusto, società) e per la capacità di esprimere attraverso forme estetiche trasformazioni positive: «Collegare fra loro varie discipline – aveva spiegato – mi permette di pormi come obbiettivo un progetto antropologico, olistico e letterario insieme. Il mondo oggi è modulato dalla violenza. La mia responsabilità di progettista è tutta concentrata nella espressione emozionale ed estetica del mio lavoro. È solo all’interno di questo perimetro che posso incidere nella società». Il suo sguardo antropologico sul mondo della progettazione è stato capace di pensare i suoi oggetti senza dimenticare i valori etici e sociali, trasformando così un semplice utensile in un prodotto carico di simbologia, pronto a trasportare il suo utilizzatore in una dimensione rituale e magica. E così un semplice cavatappi disegnato per la Alessi si trasforma in una serie di personaggi sorridenti e divertenti, capaci di rendere speciale l’azione di aprire una bottiglia di vino.
In questo senso, il lavoro di Mendini non è semplicemente un’attività pratica ma lega la cultura del progetto ad istanze psicologiche, portando avanti delle riflessioni umanistiche che non sempre si concretizzano materialmente. Costruire, pensare, ideare luoghi di vita, sono per lui azioni guidate da una forte valenza antropologica, affinché tutto possa essere un dono di gentilezza e di curiosità per gli uomini. Il merito di Mendini, inoltre, è di aver suggerito tecniche decadute come il mosaico e i vetri colorati, procedure in cui l’arte e la scienza si fondono per riqualificare esteticamente il prodotto industriale.
Uno dei suoi contributi più grandi è stato poi il pensare e creare scenari espressivi, in cui il saper costruire con rigore tecnico-scientifico è il modo migliore per la realizzazione di un universo umano a portata di tutti. Elevare il livello di gusto delle masse con la qualificazione del prodotto di serie e con l’ideazione di un arredo capace di stimolare la creatività e la mente delle persone, sono solamente alcuni dei risultati più brillanti che Mendini è riuscito a realizzare con la convinzione della supremazia dell’idea sulla materia. In questa direzione, Mendini è riuscito a riaffermare il valore della fantasia, in uno scenario che, da tempo, aveva preferito una progettazione sterile ad una dinamica e sognante. Mendini così reagisce al grigiore modernista, superando il modello di “design-consumista” e proponendo un approccio metodologico radicalmente diverso, che avrebbe sostenuto lo sviluppo e il miglioramento delle condizioni di vita. Mendini non ha solamente reinventato il rapporto oggetto-industria e oggetto-uomo ma ha ripensato al ruolo del designer, il quale non deve essere un semplice assistente dell’industria ma deve divenire un combattente, un pioniere con lo scopo di comunicare la vita, la morte, il caos.
Ricordare la lezione del maestro, fra pittura, architettura e design è sempre importante perché ci permette di dare un senso umanistico alle cose, di pensare non in termini razionali e di profitto e di lasciare spazio alla cultura condivisa del bello.
Francesca Gentili, critica d’arte
Pubblicato giovedì 7 Marzo 2019
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