Anno 1971. Alighiero Boetti (1940 – 1994), giovane artista torinese, lascia la sua città natale e si trasferisce nella Capitale. È una scelta sentita, nata dalla necessità di dare nuova linfa vitale alla propria sperimentazione artistica. È convinto che Roma, con il suo clima culturale vivace, sia la giusta città per aprirsi al mondo e per indagare nuovi campi espressivi. «Ho scoperto – afferma l’artista – che a Torino non usavo mai i colori. Forse percepisco il troppo rigore della città, mentre qui a Roma ho capito la bellezza di fare molto, di fare più rapidamente, di allargare, di facilitare». E proprio nel 1971, Boetti crea le sue celebri mappe, opere ripetute negli anni che raccontano le geografie del mondo e che racchiudono un significato universale che parla di condivisione, di integrazione e di solidarietà. «Il lavoro della Mappa ricamata – afferma l’artista – è per me il massimo della bellezza. Per quel lavoro io non ho fatto niente, non ho scelto niente, nel senso che il mondo è fatto com’è e non l’ho disegnato io, le bandiere sono quelle che sono e non le ho disegnate io, insomma non ho fatto niente assolutamente; quando emerge l’idea base, il concetto, tutto il resto non è da scegliere». Le mappe sono opere da ammirare con lo sguardo proiettato al futuro; sono opere che permettono a chiunque di riflettere sui nostri confini, politici e mentali, suggerendo unioni insperate: ogni linea di confine delineata si intreccia perfettamente con quella del Paese che gli sta vicino e, solamente nell’insieme dei molteplici simboli e colori che lo popolano, risiede la bellezza del mondo intero. Boetti nel tessuto della sua creazione presenta tutta la ricchezza culturale della Terra, abitata da popolazioni diverse. Ed è unicamente questa diversità geografica e culturale che riesce ad arricchire il pianeta.
Con Boetti la geopolitica diventa poesia, oggetto di contemplazione per tutti. L’artista costruisce un sistema simbolico fatto di colori e forme che si intrecciano idealmente e fisicamente fra loro, ma che, fra differenze e pluralità, mantiene intatta l’identità di ogni Paese. In ogni mappa troviamo informazioni politiche e geografiche in continua trasformazione. L’opera, riprodotta nel tempo, segue le trasformazioni della nostra geografia politica, ovvero della nostra storia.
Le mappe sono ideate minuziosamente dall’artista ma, di fatto, sono create dalla maestria nel ricamo delle tessitrici afgane. In Italia, infatti, Boetti fa disegnare, su una tela di lino, un planisfero politico con bandiere colorate all’interno dei confini di ogni Stato per poi delegare alle donne afgane il ricamo dell’intera superficie. Ogni mappa ha un bordo ricamato con lettere, dediche, testi politici o poetici. In venti anni sono state prodotte oltre duecento mappe, commissionate prima a Kabul, dove l’artista apre un laboratorio di ricamo e l’One Hotel, suo albergo-atelier, e, dopo l’invasione sovietica dell’Afghanistan, nei campi profughi di Peshawar, in Pakistan. Se scegliere di far realizzare le opere in Afganistan e in Pakistan è per Boetti essenziale, per molti è una decisione radicale: sono luoghi ai margini, che nulla hanno a che fare con il primato culturale ed economico occidentale. Proprio in quei luoghi remoti, Boetti dà vita a manufatti unici, simboli di un legame umano e produttivo nuovo e preziosissimo.
Le mappe non sono le uniche opere ricamate; i più noti lavori di Boetti, dagli arazzi ai kilim, sono infatti realizzati grazie al lavoro artigianale orientale. L’artista, in questa “cessione di responsabilità”, non si allontana mai del tutto dall’opera, sapendo sia dare il giusto valore alla fase ideativa sia rivendicando l’importanza della creatività collettiva. Con Boetti, l’artista e l’artefice ottengono pari dignità; due culture lontane fra loro, quella italiana e quella afgana, realizzano un bene comune, un’opera dal valore assoluto, mostrando ai più l’importanza della cooperazione, della socializzazione, della forza delle idee e della relatività.
Una visione artistica, questa, che nasce dalla voglia di sperimentare in accordo con il desiderio di scoprire nuove culture. I suoi lavori risultano immediati, sorretti da una grande carica comunicativa che spinge l’osservatore a riflettere sui temi proposti dall’artista. E proprio il pensiero è, per Boetti, il dono più grande dell’uomo: «Ci sono – racconta – cinque sensi e il sesto è il pensiero ovvero la cosa più straordinaria che l’uomo possieda, e che non ha niente a che vedere con la natura. Per cui se io devo dire quali sono state le grandi emozioni della mia vita, confesso che non sono state di ordine materiale (…) le grandi emozioni, secondo me, si provano ascoltando Mozart, leggendo una poesia, perché c’è un pensiero fatto di mille coincidenze, sincronismo, ricordi quasi biologici, forse di tempi antichissimi in cui eravamo un’altra cosa (…) quando eravamo forse più vicini agli dei».
Boetti viaggia molto, gira l’Europa, l’Africa, gli Stati Uniti, l’America del Sud, il Giappone e, appunto, l’Afghanistan. «Penso di essermi posto in una situazione di ricerca – afferma – nel senso di un atteggiamento di attenzione e di curiosità che permette di vedere moltissime cose e di divertirsi molto con il mondo, dietro le cui apparenze stanno delle incredibili magie: magie delle parole, magie dei numeri». Boetti affronta i temi della società contemporanea, dal rapporto con l’altro al superamento dei confini, dal ruolo della comunicazione a quello della produzione tecnica. Il suo sguardo punta all’infinito, non vede confini e ci indica come, lavorando insieme, si possa costruire un mondo migliore. Con il suo lavoro Boetti ci dice che non dobbiamo essere vittime di provincialismo e ottuso protezionismo. Ma che, al contrario, le diversità dei popoli ci uniscono e ci rendono completi. Quelle mappe sono belle proprio perché composte da una molteplicità di colori e simboli. L’uomo non può far altro che abbandonarsi alla grandezza del mondo e impegnarsi con azioni collettive, guardare oltre i propri confini e decidere che è arrivato il momento di progredire tutti insieme. Nessuno escluso. Noi abbiamo un unico compito: proteggere le diversità del genere umano dai pericoli del capitalismo, della globalizzazione, del liberismo spietato.
Francesca Gentili, critica d’arte
Pubblicato venerdì 8 Settembre 2017
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