Aveva il «fardello del giornalista», così lo storico francese Henry Focillon descriveva Honoré Daumier (1808 – 1879), caricaturista, litografo e pittore. E questo per la spiccata capacità di farsi cronista del suo tempo, testimoniando, senza censure e ipocrisie, la storia morale del XIX secolo. Ancora oggi, a più di duecento anni dalla sua nascita, le opere grafiche dell’artista francese sono più attuali che mai: un racconto puntuale della vita politica e sociale di metà Ottocento, fatta di miserie, disuguaglianze, prepotenze e vizi borghesi. Daumier non disegna paesaggi o nature morte, è interessato unicamente agli uomini e alle loro condizioni. Il suo occhio osserva la vita dei ricchi e del re Luigi Filippo, come pure quella del ceto operaio, che a Parigi e in ogni centro della Francia, a quel tempo, non se la passa per niente bene. Nel 1846, ad esempio, i bambini fra i sei e gli otto anni erano impiegati nella costruzione di bui cunicoli nelle miniere, e ricevevano una paga un quarto più bassa di quella degli adulti. Anche quest’ultimi, poi, non avevano grandi riconoscimenti salariali. La patria della rivoluzione aveva perso ogni speranza di liberté, égalité, franternité (libertà, uguaglianza, fratellanza). Daumier lo vede e, primo fra tutti, si avvale di un mezzo di comunicazione di massa, il disegno su stampa, per raggiungere con l’arte il pubblico. Le sue immagini non rappresentano solamente un fatto, ma sono espressione del giudizio morale dell’artista su quel fatto, pronto a smascherare ogni atto di prepotenza e mal governo della monarchia a scapito del popolo.
In questo senso, il Vagone di terza classe rappresenta una delle opere mature più toccanti di Daumier: è la denuncia delle condizioni sociali delle classi più povere, costrette a lunghi spostamenti in treno per raggiungere il luogo di lavoro. La terza classe ferroviaria, abolita solamente nel 1956, era quella frequentata dalla misera gente: uomini, donne e bambini che, ogni giorno, riempivano uno scompartimento, seduti gli uni di fronte agli altri, con il loro pesante bagaglio di fatica. Nel 1862, l’artista realizza una tela, il Vagone di terza classe appunto, quasi monocroma, tutta sui toni del bruno, al cui centro domina la scena una anziana signora con un cappuccio in testa e un cestino sulle ginocchia. Ha lo sguardo stanco e alienato, rughe profonde e una compostezza pacata. Di fianco, c’è una donna più giovane, con in braccio il suo piccolo figlio che dorme. Sul resto della dura panca di legno, un ragazzino esausto è crollato in un sonno profondo. Lo scompartimento retrostante, in netta contrapposizione, è popolato da signori benestanti col cappello in testa.
Daumier affida alle due donne la rappresentazione della povertà materiale che affligge tutto il popolo, costretto in miseria da governanti avari e senza scrupoli. La critica ufficiale non apprezza l’opera e apertamente lo disapprova. In particolare, gli viene contestata la scelta di rappresentare i più umili e di non esaltare il treno, simbolo di progresso e innovazione. Daumier, infatti, aveva deciso di cogliere gli effetti, spesso negativi, dell’industrializzazione sulle classi lavoratrici di Parigi e, lontano da qualsiasi intento celebrativo, aveva compiuto una chiara denuncia sociale. La tela lascia spazio all’immaginazione, l’artista non ci indica se i passeggeri stiano tornando a casa o se si stiano allontanando dai propri cari. Ci piace, però, pensare che i lavoratori di Daumier, superando la propria contingenza, si preparino a percorrere un viaggio che li conduca lontano, in un mondo in cui i loro diritti siano riconosciuti. Un viaggio che dalla Comune di Parigi del 1871, quando il popolo con un governo socialista avrebbe voluto «porre fine allo sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo», arrivi a conquistare una legislazione per tutelare i diritti dei lavoratori.
Non era la prima volta che l’artista si cimentava in palesi contestazioni. Negli anni del suo esordio come caricaturista su Le Charivari, quotidiano ribelle fondato da Charles Philipon, ad esempio, esegue Gargantua: un ritratto impietoso di Luigi Filippo, raffigurato con la testa a pera e un enorme corpo; la sua lingua lunghissima, trasformata in una strada fagocitante, si dirige verso il popolo, misero e senza speranze, costretto per sopravvivere a portargli ogni bendidio. Ai piedi dell’ingordo sovrano, Daumier disegna i rappresentanti dell’Assemblea Nazionale, uomini tutti uguali, la cui unica preoccupazione è leccare i piedi del re, agitarsi e urlare. È chiara la netta condanna dell’artista alla monarchia, il cui governo produce ingiustizia sociale. Come chiara è anche la condanna che, nel 1831, subisce l’artista per questa vignetta: sei mesi di prigione e cinquecento franchi di ammenda. L’arresto, tuttavia, non ferma Daumier. Quando nel 1835 Luigi Filippo prende provvedimenti contro la libertà di stampa e i giornali satirici, l’artista realizza una litografia il cui protagonista è un operaio litografo che battagliero si erige sulla scritta «Liberté de la presse» (Libertà di stampa).
Qualche anno prima, nel 1832, con chiaro intento irrisorio, Daumier aveva modellato con l’argilla le teste di quarantacinque deputati del partito conservatore e sostenitore di Luigi Filippo.
Ogni modellino, fortemente deformato, era poi stato replicato in bronzo e venduto al pubblico. Ma non solo. Daumier si cimenta anche in opere cariche di speranze e passioni. Ne L’ultimo consiglio degli ex ministri, la personificazione della Repubblica entra a piedi nudi e col berretto frigio intesta, in una stanza, e con il suo incedere fa scappare i deputati corrotti. Fra le sue scene politiche più eloquenti troviamo poi La rivolta, un dipinto del 1848 in cui una giovane donna in camicia bianca guida il corteo di una protesta, esibendo con fierezza il pugno chiuso. L’unico tema religioso dell’attività dell’artista è del 1852. Si tratta di Vogliamo Barabba! (Ecce Homo), una tela alta più di un metro e mezzo, non destinata ad un luogo di culto, dove un Cristo è esposto alle grida e al giudizio del popolo. L’intento di Daumier è sia etico sia politico: mostrare e denunciare la subalternità della folla in balia del volere dei manipolatori e dei potenti.
Daumier, dunque, è certamente uno dei più grandi artisti del XIX secolo, sia per aver reso l’immagine a stampa uno strumento di denuncia sociale sia per la capacità di realizzare, come abbiamo visto, opere storiche, in grado di sbeffeggiare il potere e far riflettere le coscienze. Dai lavori satirici alle rappresentazione dei comuni comportamenti umani, l’artista ci mostra il mondo nella Francia dell’Ottocento. Un mondo, a ben vedere, non così lontano dal nostro. Come i lavoratori del vagone di terza classe anche noi dobbiamo compiere un lungo viaggio per riportare il lavoro e la dignità al centro delle nostre vite, lottando per avere tutele, sicurezze e condizioni di salario accettabili. Per farlo occorre combattere, non farsi fiaccare dalla fatica e dalla pochezza di alcuni governanti. E quando Pilato griderà chi scegliere, ovviamente, non rispondere «Vogliamo Barabba».
Francesca Gentili, critica d’arte
Pubblicato venerdì 18 Maggio 2018
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