È il 1979 quando a Bochum, una cittadina della Germania nella Renania settentrionale, l’artista e attivista politico Joseph Beuys (1921 – 1986) è chiamato a interrogarsi su che cos’è l’arte. Un interrogativo per niente semplice, a cui intellettuali, artisti e filosofi cercano da sempre di trovare una risposta. Il contributo che dà Beuys è importantissimo, perché promotore di un cambiamento che riguarda tutti noi. Se per i più l’arte è una forma individuale di intrattenimento, una sfera della vita nella quale far confluire esperienze diverse, per Beuys è un’esperienza sociale, uno strumento per far dialogare gli uomini. L’artista precisa che: «Se questa domanda – cos’è l’arte? – non diventa centrale nella ricerca e non trova una risposta davvero radicale, che consideri effettivamente l’arte quale punto di partenza per la produzione di ogni cosa, in qualsiasi ambito di lavoro, allora qualunque idea di ulteriore sviluppo è una perdita di tempo. Se vogliamo ridefinire e riformare la società, bisogna tenere a mente questa idea – ossia, che ogni opera deriva dall’arte –, perché inciderà anche sulle questioni economiche, toccando i diritti umani e legali». L’arte, dunque, come necessità civile, legata alla questione della libertà: l’arte come scienza della libertà, mezzo indispensabile per far sì che l’essere umano possa rendere tangibile «l’impulso evolutivo del mondo».
In questo senso, una delle sue espressioni più conosciute è «Ogni uomo è un artista», Significa che l’arte è l’unica forza veramente rivoluzionaria e ogni uomo, nessuno escluso, deve avvalersi della propria competenza creativa in qualunque ambito decida di esprimersi. Essere un uomo significa essere liberi di agire, di influire con le proprie azioni nella società e di apportare dei cambiamenti. L’arte, dice Beuys, non è un concetto museale bensì antropologico e democratico. Non bisogna pensare, infatti, che l’arte sia un dono per pochi talentuosi, ma occorre considerarla come una capacità innata dell’essere umano. Una capacità che ogni uomo può praticare per influire nella società. In sostanza, ogni uomo è un artista perché capace con il suo pensiero di imprimere nella società un cambiamento in senso politico, etico e sociale. Ne deriva una concezione estetica rivoluzionaria dove l’arte diventa una pratica comune, capace dunque di migliorare la relazione dell’uomo con il mondo.
Emblematica poi è La Rivoluzione Siamo Noi (1971), una imponente fotografia di circa due metri in cui è rappresentato l’artista che procede verso lo spettatore con la volontà di spronarlo a unirsi a lui. Già perché la rivoluzione siamo noi, noi e nessun altro. Siamo noi gli artefici dei cambiamenti sociali; siamo noi che con le nostre azioni, o non azioni, possiamo imprimere una svolta nella storia. Per farlo occorre praticare la partecipazione creativa alla vita. Con La Rivoluzione Siamo Noi, Beuys suggerisce allo spettatore di scegliere da quale parte stare, se unirsi a lui o rimanere uno spettatore passivo. Un messaggio, questo, attuale più che mai. Nel periodo storico in cui viviamo, infatti, in cui ci si chiede di essere sempre connessi gli uni con gli altri, risulta tuttavia difficile riuscire a credere nel cambiamento collettivo. Un cambiamento democratico che favorisca l’uguaglianza e la possibilità anche per gli umili di vivere dignitosamente. La crisi di valori che ha colpito la nostra società ha favorito processi populistici e di antipolitica. Però, come dice Beuys, la rivoluzione siamo noi e solo noi, con pensiero critico e senso comune, possiamo cambiare il mondo. Quel “noi”, a guardar bene, è quanto mai importante: non si riferisce solamente alla possibilità di autodeterminarsi ma sollecita tutti a credere alla fratellanza e all’uguaglianza e, allo stesso tempo, sensibilizza il singolo a sconfiggere le ingiustizie commesse contro chiunque e ovunque.
È chiaro come nella poetica di Beuys l’arte si leghi imprescindibilmente alla vita. Ogni sua azione artistica è connessa ad un’idea di cambiamento nella società. Una scelta questa nata soprattutto negli anni successivi al secondo conflitto mondiale. Un conflitto che per l’artista segna una drammatica sconfitta e una rinascita. Le cronache raccontano di come il giovane Beuys, arruolato nella Luftwaffe, l’aviazione militare tedesca, viene colpito in volo da una contraerea russa. Il suo ju87 precipita nella fredda neve in Crimea; l’impatto col suolo è terribile: il suo compagno di volo muore, Beuys invece viene scaraventato a terra e perde coscienza.
L’aiuto di un gruppo di Tartari nomadi è per lui provvidenziale, questi infatti riescono a salvargli la vita con i loro rimedi tradizionali: grasso animale per medicare le ferite, feltro per preservare il calore corporeo, latte e formaggio per nutrirlo. Questo evento provoca una crisi profonda in Beuys: «In effetti – spiega l’artista – questo shock dopo la fine della guerra è la mia esperienza primaria, l’esperienza fondamentale che mi ha portato a imboccare il mio vero percorso artistico, cioè a riorientarmi nel senso di un inizio radicalmente nuovo». Alla barbarie della guerra, l’artista reagisce impegnandosi nello studio e nella pratica dell’arte prima e nella vita politica poi, prendendo parte alla fondazione del partito tedesco dei Verdi.
Da un punto di vista artistico, le sue idee si allineano con quelle di George Maciunas (1931 – 1978), artista americano di origine lituana trasferitosi in Germania, promotore del movimento neodadaista Fluxus. Nel 1963 Maciunas scrive il Fluxus Manifesto e Beuys è fra i firmatari. Il compito di Fluxus è «promuovere l’arte viva. Fondere i quadri rivoluzionari, culturali, sociali e politici in un fronte d’azione comune», ma anche «promuovere l’arte vivente, l’anti-arte, la realtà non artistica che deve essere colta da tutti i popoli, non solo da critici, dilettanti e professionisti».
Provocatorio e controverso, Beuys in pieno stile fluxus lotta contro chiunque limiti le libertà dell’individuo: quando, da professore alla Kunstakademie di Düsseldorf, gli viene imposta la selezione a numero chiuso per gli studenti, lui rifiuta questa scelta discriminatoria ammettendo ai corsi anche gli studenti che non avevano superato le prove di ammissione. Per questo nel 1972 viene licenziato. Nel 1973, però, fonda la Freie internationale Hochschule für Kreativität und interdisziplinäre Forschung (la Libera università internazionale per la creatività e la ricerca interdisciplinare), perché convinto che debba essere rivolta un’attenzione maggiore dagli insegnanti proprio a chi non supera le prove di ammissione.
Anche per questo Beuys è considerato fra i maggiori artisti d’avanguardia della seconda metà del XX secolo. La sua influenza è paragonabile a quella dell’artista americano Andy Warhol (1928 – 1987), con la sola differenza che mentre Warhol sceglie immagini facilmente comprensibili, Beuys elabora un vocabolario personale e complesso.
L’artista, dagli anni Sessanta del secolo scorso è pioniere di performance rituali o azioni artistiche. Fra le più celebri I like America and America Likes Me (1974), dove si fa chiudere in una gabbia per una settimana insieme ad un coyote, riuscendo a superare tutte le diffidenze dell’animale, e Come spiegare la pittura a una lepre morta (1965), durante la quale l’artista, seduto su una sedia in un angolo di una galleria d’arte di Dusseldorf, con volto coperto di miele e trucioli d’oro, guarda una lepre morta che tiene in braccio, poi si alza e comincia a guardare i quadri appesi nella stanza. Fra perplessità e fascinazione, il pubblico è ipnotizzato da Beuys, l’artista sciamano: «Forse – racconta – è perché tutti sanno quanto sia difficile spiegare le cose, soprattutto quando ci sono di mezzo l’arte e le attività umane».
Altre azioni performative conosciute sono legate al suo impegno politico e ambientalista.
Nel 1981, ad esempio, realizza Terremoto in Palazzo, un’istallazione dedicata al terribile terremoto in Campania, composta da tavole trovate fra le macerie, arricchite con elementi di vetro e ceramica, materiali che comunicano l’idea di fragilità. L’anno successivo, l’artista presenta a Documenta, la più importante manifestazione di arte contemporanea di Kassel, un lavoro grandioso dal titolo 7000 querce. L’artista riempie la piazza della città con 7000 monoliti di basalto e mette a dimora una piccola quercia. Seguendo questo esempio, l’artista sollecita i cittadini a comprare una pietra, il cui ricavato sarebbe servito ad acquistare e piantare altri alberi. Questa azione, terminata nel 1987, un anno dopo la morte dell’artista, si è dunque protratta nel tempo e ha visto la partecipazione di gran parte della società.
Il lavoro è pensato in divenire: per realizzare il grande bosco immaginato da Beuys occorrerà aspettare decine e decine di anni, quando le querce saranno diventate grandi e vigorose.
Nel frattempo, però, il gesto sacro e rituale di piantare alberi ha contaminato l’intera collettività, riportandola a ripensare al proprio rapporto con la natura. L’opera porta e porterà delle trasformazioni nel paesaggio e nella vita dei cittadini. Trasformazioni nate dalla creatività umana, la qualità in grado di migliorare ogni cosa. Il gesto collettivo, ecologico e creativo diventa per Beuys una scultura sociale, e dà la possibilità di applicare strategie artistiche per formare una comunità mondiale democratica e libera. Ogni uomo, pensa l’artista, dovrebbe essere in grado di non disperdere la propria creatività. Poco prima di morire scriverà: «Proteggi la fiamma perché se non la si protegge, prima che ce ne rendiamo conto il vento la spegnerà, quel vento stesso che l’aveva accesa. E allora povero cuore sarà finita per te, impietrito di dolore».
Francesca Gentili, critica d’arte
Pubblicato giovedì 22 Febbraio 2018
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