«Credo che l’arte sia ancora un luogo per la resistenza e per il racconto di varie storie, per la convalida di alcune soggettività normalmente trascurate. Sto cercando di suggerire cambiamenti e di resistere a quelle che credo siano le tirannie della vita sociale». Con queste parole, Barbara Kruger (1945), artista concettuale americana fra le più influenti dei nostri giorni, riassume la sua poetica e le sue finalità creative. L’artista si muove nella cultura post moderna ed è autrice di uno stile inconfondibile, con scatti fotografici in bianco e nero e slogan provocatori su sfondo rosso. Il suo fare è provocatorio con il chiaro intento di attivare le emozioni degli spettatori. Ogni suo lavoro, infatti, pone al pubblico riflessioni quanto mai attuali di contestazione sociale. In particolar modo, Kruger parla di femminismo, di consumismo e di razzismo, smascherando i rapporti di potere e l’impostazione culturale della società occidentale. Con tono perentorio, l’artista cerca di solleticare gli spettatori: «Credo – afferma – che avere qualcosa su cui riflettere davvero è ciò che ci rende chi siamo nel mondo, occorre riflettere su come la cultura ci costruisce e ci contiene».
È interessante conoscere oggi la sua arte perché rappresenta uno stimolo per avere un occhio critico verso la società capitalista dominante, creando quella consapevolezza che forse, in un futuro speriamo prossimo, ci permetterà di costruire un mondo più giusto, dove i valori del lavoro e della giustizia sociale siano più rilevanti del consumismo sfrenato e dell’indifferenza.
Punto di partenza dell’arte della Kruger è la contestazione di stereotipi e pregiudizi sui quali si basa la comunicazione visiva, sia commerciale sia politica. Un modus operandi, il suo, nato negli anni Sessanta quando l’artista lavora come graphic designer per la Condé Nast, la casa editrice delle riviste più famose al mondo. Spesso l’artista prova un profondo disagio per quelle immagini patinate e quegli articoli che promuovono un ideale irraggiungibile, menzognero ed ipocrita. Kruger capisce che la pubblicità e la propaganda influenzano il pubblico in modo molto incisivo e, come un lavaggio del cervello, modificano la percezione del reale, proponendo una cultura di massa dove l’individuo è un soggetto omologato e omologante. Come Andy Warhol, anche Kruger si serve quindi della pubblicità per ottenere i suoi scopi ma, al contrario del maestro della Pop Art, l’artista critica apertamente l’industria globale, rea di creare solamente illusioni.
Tratto distintivo dell’arte della Kruger è la combinazione fra tipografia e fotografia in bianco e nero, simbolo dello schema positivo-negativo. «Cerco di affrontare – spiega Kruger – le complessità del potere e della vita sociale, ma per quanto riguarda la presentazione visiva, tento di evitare un alto livello di difficoltà. Voglio che le persone siano attratte dalla mia opera». L’artista per coinvolgere lo spettatore utilizza i pronomi personali (io, tu, noi) e, con lo stesso linguaggio perentorio di un manifesto pubblicitario, propone riflessioni dirompenti. Scrive a macchina i suoi slogan, adottando un particolare carattere in grassetto, il famoso font Futura, creato nel 1927 secondo i principi del Bauhaus, la scuola tedesca che vedeva nella comunicazione di massa un utile mezzo di coesione sociale e non di manipolazione. I caratteri rossi, fra l’altro, sono un omaggio ai manifesti costruttivisti di Rodcenko. I suoi giochi di parole, inoltre, rimandano all’irriverenza dei Dadaisti e di Marcel Duchamp, artista abilissimo nel creare con ironia messaggi di contestazione dell’autorità costituita. Kruger non firma mai le sue opere, con tutte le riflessioni che ne seguono sul ruolo dell’autore, sull’autenticità e sulla riproduzione dell’opera d’arte.
Provocatorio e diretto, il lavoro dell’artista è uno stimolo a non credere ai messaggi e ai metodi dei mass media. Fra le opere più iconiche troviamo I Shop Therefore I Am (Consumo, dunque sono) – 1987 -, un capovolgimento del “Penso, dunque sono” del filosofo francese del XVII secolo Cartesio; ma anche Your Body is a Battleground (Il tuo corpo è un campo di battaglia) – 1989 –, un’opera femminista concepita inizialmente per sostenere una manifestazione per il diritto all’aborto, tenutasi a Washington nell’aprile del 1989. Questo lavoro, nel tempo, è divenuto un simbolo per la lotta delle donne e dei loro diritti, combattendo l’immagine stereotipata della figura femminile promossa dalla pubblicità.
Sulla stessa scia, anche Super Rich, Ultra Georgeus, Extra Skinny, Forever Young – 1997 – critica verso la società che esalta come virtù femminili la ricchezza, la bellezza, l’estrema magrezza e la giovinezza.
Kruger costruisce figurazioni spettacolarizzate, catturando l’attenzione dello spettatore sia visivamente che mentalmente. Il suo scopo è chiaro: provocare la presa di coscienza su un determinato tema evidenziato. In Who will write the history of tears? (Chi scriverà la storia delle lacrime?) – 1987 – l’artista riprende un testo del semiologo francese Roland Barthes, sollecitando una riflessione sull’importanza del piangere e dell’esprimere i propri sentimenti: una critica verso gli stereotipi di genere, in cui l’uomo per essere considerato virile non dovrebbe piangere, negando, di fatto, un lato del suo essere.
L’arte di Kruger, dunque, è un’arte che combatte gli stereotipi e la società che li crea; indaga le influenze che generano omologazione e propone un cambiamento di coscienza. Con immagini moderne, Kruger rifiuta le etichette e le categorie predefinite, dal corpo femminile magro e provocante al lavoratore infaticabile dedito alla carriera. In questo senso, l’arte in generale può essere un mezzo efficace per sensibilizzare con semplicità e chiarezza tutte le persone.
I lavori di Kruger ci offrono la possibilità di chiederci non soltanto quale sia l’origine di questi stereotipi ma anche di indagare quali rapporti di potere creino. Gramsci scriveva che «cultura non è possedere un magazzino ben fornito di notizie, ma è la capacità che la nostra mente ha di comprendere la vita, il posto che vi teniamo, i nostri rapporti con gli altri uomini. Ha cultura chi ha conoscenza di sé e del tutto, chi sente la relazione con tutti gli esseri». In chiave gramsciana, Kruger invita dunque il pubblico a comprendere i meccanismi della società in cui viviamo e a non sentirsi subalterni della cultura dominante. In fondo, We don’t need another hero: non abbiamo bisogno di un altro eroe, di un venditore di illusioni. Siamo in grado di liberarci dalla pressa dei consumi e guardare al mondo ispirati dai valori dell’equità, della fratellanza, della democrazia e del lavoro.
Francesca Gentili, critica d’arte
Pubblicato venerdì 3 Aprile 2020
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