Si è da poco chiusa la nona edizione del Torchiara Story Festival, nel cui ambito è stato celebrato il traguardo del Progetto Cilento Pac, Percorsi d’arte contemporanea, che ha consentito di valorizzare ulteriormente 12 paesi dell’unione dei Comuni Paestum – Alto Cilento, attraverso l’installazione di 16 opere permanenti di artisti nazionali e internazionali, lungo gli itinerari incontaminati nelle zone più panoramiche dei borghi antichi, alcuni dei quali situati nel territorio del parco nazionale del Cilento, Vallo di Diano e Alburni. La direzione artistica è stata affidata a Elio Rumma, che ha anche donato alcune sue opere: andiamo a conoscerlo meglio.
Elio Rumma è un sognatore, che a dispetto della sua età, conserva intatta negli occhi passione, ingenuità e speranza, di chi vorrebbe un mondo migliore, basato su fratellanza, comprensione e rispetto. Nato a Salerno nel 1946, ha l’entusiasmo di un eterno ragazzo, pronto a mettersi in gioco e trasmettere la sua nutrita esperienza alle generazioni più giovani. Artista per vocazione, ha fatto (e continua a farlo), il pittore e l’autore, ma è stato anche sceneggiatore, regista, montatore, scopritore di talenti, ideatore di mostre in giro per il mondo, critico d’arte. È un uomo che ha conservato intatto il fascino del ribelle, aumentato dall’esperienza e dalla cultura. Una vita piena da raccontare, per la quale non basterebbe un libro, Elio è di quegli uomini che quando si ha la fortuna di incontrarli, lasciano il segno. L’ho incontrato a Vallata (AV) in casa di amici comuni e non ho resistito alla tentazione di farmi raccontare della sua vita e della sua visione del mondo, fino alla politica di oggi.
“Sono nato in una famiglia in cui l’unico valore che contava era il denaro, soprattutto per mio padre, un po’ meno per mia madre. Non ho mai avuto un padre, bensì un ‘signore’ le cui parole più gentili che ricordo mi abbia mai rivolto, sono state: figlio mio, tu sei scemo. È questo il gesto più affettuoso che ricordo. Mio padre non era un disonesto, ma un gran traffichino: negli anni Cinquanta-Sessanta possedeva due collegi, uno a Salerno e uno a Foggia, oltre a varie scuole parificate (dalle medie alle superiori), con cui macinava guadagni” .
“Nelle sue scuole passavano tanti studenti, persino Luca De Filippo prese il diploma da lui. Giacché frequentavo ‘cattive compagnie’ che non approvava, ovvero i figli del fruttivendolo e del calzolaio, a 10 anni, mio padre mi spedì in collegio. Mi mandò a 600 km da casa, presso il Cicognini di Prato, noto per aver ospitato illustri personaggi. Dopo 4-5 anni gli diedi l’out out: o mi ritiri o mi faccio espellere! Fu così che mi inviò presso il suo appartamento di Roma-Balduina, dove vissi con la governante e l’autista, che mi accompagnava al liceo ai Parioli, mentre lui, con il resto della famiglia, continuò a vivere a Salerno. Invece di andare a scuola, frequentavo l’associazione Nuova Resistenza, della quale ero uno dei più giovani dirigenti nazionali: eravamo dei comunistacci, insomma”.
“Erano gli inizi degli anni Sessanta, promuovevamo convegni coi vecchi partigiani, moti di piazza. Frequentai per un po’ anche la vecchia scuola politica del Pci alle Frattocchie, dove ci insegnavano le tecniche di guerriglia urbana, ma quando le applicavamo, ci consideravano violenti e così finii espulso, come estremista frazionista. Dopo la licenza liceale del 1964, mi iscrissi a Filosofia all’Università di Napoli. Negli anni della rivoluzione musicale, ebbi la fortuna di trovarmi a Roma all’inaugurazione del Piper, e giacché quella musica mi piaceva molto e continuavo a frequentare anche Salerno, decisi di creare due band. Più che musica, in realtà si faceva rumore, non sapevo cantare granché, ero scenografico, urlavo, gesticolavo, mi divertivo, tranne la sera in cui venne a vedermi mio padre che, scandalizzato anche per le camicie coi volants che indossavo, se ne andò dopo circa un minuto, disgustato: ‘che schifo, che schifo!’. Sebbene vivessi prevalentemente a Roma, mi fidanzai con una ragazza salernitana con la quale stavo per sposarmi, finché i suoi genitori non mi chiesero che intenzioni avessi per vivere. Risposi che intendevo andare dai tibetani sull’Himalaya, e così il matrimonio andò a rotoli: la futura sposa esigeva sicurezze più borghesi”.
“Decisi allora di viaggiare: morto mio padre nel 1969, avevo ereditato una buona somma e per cominciare, potei recarmi in Oriente, in Marocco. Da una parte c’era il mio impegno politico in Potere operaio e dall’altra, mi affascinava l’ideologia hippy: all’epoca si parlava di società ideale in cui si era tutti fratelli e contro la guerra. Nel frattempo lavoravo con mio fratello Marcello, anche all’allestimento di mostre presso gli arsenali di Amalfi, da cui sarebbe nato il movimento dell’Arte povera nel 1968: vi avrebbero partecipato i più grandi pittori italiani e stranieri. Ormai è già parte della storia dell’arte. Mi appassionai così all’arte contemporanea. Insieme a mio fratello, nel 1967, fondai anche la casa editrice Rumma Editore, tra i cui direttori di collana c’era Aldo Masullo. In tre anni di attività, pubblicammo 12 titoli prevalentemente dedicati all’arte, alla poesia e alla filosofia: tra questi la prima traduzione italiana di Marchand du sel, di Marcel Duchamp”.
Quindi l’interesse per il cinema e le tecniche meditative…
Nel 1970 mio fratello morì e così chiusi ogni attività dell’azienda di famiglia. Tra un viaggio e l’altro, ebbi modo di fare da assistente ad Ettore Scola e fui uno dei fondatori del cineclub Filmstudio di Roma, dove in seguito sarebbero transitati i più grandi registi, da Fassbinder a Bertolucci. Avendo la passione per il cinema, cominciai a realizzare dei brevi film, il primo “N.1 Errore di gruppo” (1972), vinse il Festival del Cinema Underground di New York: fu proiettato al Moma, alla Tate e al Maxxi. Mi diede parecchie soddisfazioni, considerando che fu montato da Gabriella Cristiani, in seguito vincitrice dell’Oscar per il montaggio de “L’ultimo imperatore”. Frequentavo molto l’ambiente artistico-culturale romano e realizzai parecchi cortometraggi per Rai due, lavorando tra gli altri con Ennio Fantastichini, Rossella Or e Giorgio Barberio Corsetti. Come appassionato di buddismo, ero cultore delle tecniche meditative, tanto che mi trasferii per tre anni sull’Himalaya, in una comunità tibetana. Diceva giustamente il mio maestro che, sebbene noi occidentali fossimo in condizioni di operare di fronte a un attacco di appendicite o di andare sulla luna, loro avevano studiato per 5.000 anni come funziona la mente. Il buddismo, più che una religione agnostica, è una pratica di vita. Quando a Taschijong (confine tra Himalaya e Tibet) nacque mio figlio Siddharta, considerando che la madre era francese e io italiano, dovetti assumermi delle responsabilità: non potevo farlo vivere lì. Nel frattempo, la nascita del bambino aveva alimentato un equivoco poiché, a causa di alcuni segnali, per un po’ di tempo si era pensato che fosse la reincarnazione di un maestro: la moglie del mio maestro lo aveva riconosciuto come il marito. Diffusasi la fama che fosse un piccolo Buddha, una volta rientrati in Italia, la mia casa era diventata un luogo di culto in cui per vederlo, giungevano dall’America, dall’Argentina, dalla Norvegia. La sua stanza assomigliava ormai a un tempio tibetano, finché dopo la separazione tra me e la madre, avendo trovato una pragmatica ragazza occidentale, le candele e il resto, non furono finalmente sostituite da farfalline e aeroplani, giochi più adeguati al bambino.
Bertolucci si ispirò forse a tuo figlio per Il piccolo Buddha?
Ho avuto la fortuna di conoscere personaggi di grande spessore, Bernardo Bertolucci, che mi ha onorato della sua amicizia per tutta la vita, suo fratello Giuseppe, Age e Scarpelli, Ettore Scola, Gillo Pontecorvo: essere cresciuto in questo ambiente mi ha trasmesso significativi insegnamenti sia tecnici, sia di vita. Ufficialmente Bernardo prese spunto dal romanzo di uno scrittore californiano. In realtà, lo spunto nacque dopo aver visto Siddharta frequentando casa mia in campagna a Velletri, dove nei fine settimana confluivano dalle 20 alle 40 persone: si era informato e aveva tratto ispirazione per il film.
Poi il corto con Benigni e il lancio di Moretti…
All’Alberichino, teatro off gestito da Giuseppe Bertolucci, avevo conosciuto Roberto Benigni, intento nel suo primo spettacolo, “Cioni Mario”. Diventammo amici e poiché dovevo fare tre telefilm per Rai due (su incarico di Giampaolo Sodano), con lui girai “Comizio”. Era il 1977, io e Paolo Brunatto, socio di Karma film e regista di punta della Rai, avevamo organizzato al Filmstudio una rassegna cinematografica: “A passo ridotto”. Nanni Moretti, all’epoca molto giovane, presentò due cortometraggi: “Come parli frate?” e “Paté de bourgeois”. Capimmo che aveva talento e andava sostenuto, così, giacché tecnicamente era alle prime armi, lo aiutai a montare “Io sono un autarchico”, che portai al Filmstudio, dove i film rimanevano in programmazione al massimo una settimana. Il suo film vi rimase ben sei mesi: era nato il fenomeno Nanni Moretti!
Hai realizzato documentari per la Rai, per il ministero dell’Ambiente, fino alla storia delle accademie musicali italiane, scritto sceneggiature: c’è qualcosa che non rifaresti?
Ho sempre fatto tutto con passione e divertimento, non ho rimpianti. Nel 1973 per Italo Moscati (Rai tre, nda), che mi ha anche citato nei suoi libri, realizzai un documentario di cui oggi mi vergogno. Era dedicato a Ricardo Bofill, l’architetto e urbanista spagnolo che realizzò “il mostro” a Salerno, partendo dal presupposto che far vivere tremila famiglie tutte insieme, potesse creare comunità, mentre la realtà che emerse, fu al contrario, conflittuale. Il documentario si intitolava “Ricardo Bofill, l’erede di Gaudì”, ripensandoci, un’offesa verso il grande maestro dell’architettura: oggi non lo rifarei assolutamente.
Ciò di cui vai particolarmente orgoglioso?
Devo premettere che mio padre, figlio di emigrante, era nato in Brasile, a Bahia. Fin da piccolo mi aveva promesso di portamici, ma non era mai accaduto. Nel 1983 insieme al regista Gianni Amico, la cui casa era l’internazionale dell’antifascismo, tanto che lì ebbi modo di conoscere intellettuali e artisti sudamericani che resistevano alle varie dittature, promossi uno spazio all’interno dell’Estate romana. Chiamammo 150 artisti dal Brasile, i più grandi, da Joao Gilberto a Gilberto Gil, Caetano Veloso, Maria Bethania. Nel Circo Massimo girammo un docu-film musicale sulla manifestazione dedicata al regista Glauber Roch (figura chiave del Cinema Novo brasiliano, nda). Poiché poco dopo, i tre registi che avevano organizzato la manifestazione, scomparvero uno dopo l’altro, impiegai ben 13 anni per chiudere il film. Finalmente nel 1997, “Bahia de todos os sambas”, fu portato come evento speciale alla Mostra del Cinema di Venezia e in seguito invitato in vari festival internazionali. La realizzazione del film mi consentì di aprire un’ampia pagina col Brasile: per circa vent’anni fui invitato al festival del cinema di Salvador Bahia (organizzato da Walter Lima, fraterno amico, nonché cineasta e artista plastico di grande spessore), dove portai rassegne cinematografiche italiane e mostre sui grafitisti americani.
Hai sempre dipinto, ma bruciavi i tuoi quadri: perché?
L’arte è sempre stata nelle mie corde, ma dopo aver dipinto bruciavo i miei quadri per tenere a bada l’ego. Ho sempre pensato che gli artisti hanno un ego espanso: mettere in mostra ciò che si fa, equivale ad evidenziarlo eccessivamente.
Hai spaziato in varie attività, seppur collegate, aprendo persino gallerie d’arte e lanciando artisti…
Ho aperto anche una galleria d’arte nel centro di Roma con una socia dell’alta società che purtroppo presto si è stancata del gioco. Ma sono fiero soprattutto di aver lanciato un paio di artisti, tra cui Giorgio Galli, in cui ho avuto fiducia, nonostante fosse un ex Br. È una persona squisita, che non ha mai torto un capello a nessuno: si è trovato conivolto a soli 18 anni, in qualcosa di molto più grande di lui. All’inizio degli anni duemila sono stato tra i fondatori dell’università telematica, in seguito assorbita dalla Sapienza. Nel 2011, al compimento dei 65 anni, stanco di viaggiare ogni giorno da Velletri al Pantheon (dove avevo l’ufficio), ho deciso di ritirarmi in campagna per dedicarmi alla pittura a tempo pieno. Ho continuato a organizzare mostre e manifestazioni culturali, tra cui la festa delle camelie. Velletri è la capitale europea delle camelie, con 416 specie. Il presidente onorario dell’associazione era Gillo Pontecorvo, appassionato di camelie: oltre a portare decine di migliaia di persone, ogni anno insieme a un importante artista, veniva ospitata una diversa nazione. Nel 1996, nell’area dei Castelli Romani ebbi a organizzare anche la prima mostra antologica di Altan, che superò i diecimila visitatori e fu portata fin nelle scuole.
Come consiglieresti a un giovane d’oggi di orientare la propria vita?
Gli direi di leggere molto, formarsi una cultura umanistica perché aiuta nella comprensione della vita e viaggiare il più possibile. Il viaggio, se non fatto da turista mordi e fuggi, insegna che pur nelle diversità, siamo tutti uguali, al di là del colore della pelle e del posto in cui si nasce. Siamo esseri umani senza alcuna differenza. Credo altresì sia fondamentale crearsi degli ideali: quando eravamo giovani avevamo delle ideologie, tentavamo di realizzare qualcosa, forse non ci siamo riusciti, ma almeno abbiamo provato a cambiare le cose. Eravamo in buona fede, anche se talvolta ci siamo persi per strada. La realtà non è quella virtuale-tecnologica, che pure è utile, ma il contatto tra gli esseri umani, il tentativo di capirsi dialogando per evitare le guerre, poiché, ricordiamolo, la ragione non sta mai da una sola parte. È necessario ricercare una coesistenza capace di rendere tutti liberi: nessuno dev’essere schiavo di qualcuno.
Come valuti l’attuale situazione politica italiana?
Disastrosa: abbiamo al potere una classe politica inadeguata, impreparata, cripto o apertamente post fascista, in contrasto con la nostra Costituzione. La situazione economica è pietosa, con tante famiglie che non sanno come andare avanti a cui gli attuali pseudo governanti sottraggono quei pochi sussidi che avevano ottenuto. È vero che ci sono i furbi che hanno approfittato, ma non è giusto che per pochi vengano aboliti i sostegni a chi non ce la fa. Io stesso, avendo pochi contributi, ho una pensione minima: sono legalmente separato da mia moglie, ma sono costretto a vivere insieme a lei poiché da separati, rischieremmo di vivere entrambi da barboni. La sanità pubblica è ormai quasi inesistente, le scuole sono nel degrado, le privatizzazioni fanno sì che i servizi peggiorino, mentre gli organismi che dovrebbero proteggere le fasce più deboli della popolazione restano silenti, anzi talvolta fanno accordi a sfavore dei lavoratori. Sono preoccupato, soprattutto se penso al futuro dei miei quattro giovanissimi nipoti: che mondo si ritroveranno un domani, se vivranno, visto che nel frattempo l’imperante pazzia potrebbe scatenare una guerra atomica?
Come si è arrivati a ciò a tuo avviso?
La colpa prevalente è di quella nazione nata sul genocidio, l’America, che fin dalla sua nascita ha scatenato guerre di aggressione usando persino per prima la bomba atomica, allorquando non ce n’era alcun bisogno. Non amo chiunque sia autocrate o antidemocratico, come Putin, ma gli americani hanno commesso senza ragione crimini efferati di fronte ai quali il mondo è stato zitto. Per non parlare di Israele, altro Stato che sta compiendo da sessant’anni un genocidio scientifico contro i palestinesi. È l’unico Paese del Medioriente che ha la bomba atomica: perché? Non si può esercitare il doppiopesismo, ritenendo che il male stia da una parte e il bene dall’altra: le colpe vanno equamente divise. La nostra economia e la nostra politica, non sono condizionate dai governi, bensì dalle multinazionali, talmente potenti da determinare la politica degli Stati sovrani. Io sono per l’internazionalismo, ma ho anche sentimento patrio, mi sento profondamente italiano, voglio poter scegliere, non essere servo e dipendere dai capricci di una multinazionale. Tempo fa mi ha esterrefatto un’intervista all’amministratore delegato della Bayer, la maggiore industria chimico-farmaceutica mondiale, il quale candidamente ammetteva che a loro dei malati non interessava, ma che lavoravano esclusivamente per fare profitto… Questo significa che non contiamo niente!
Perché alle ultime elezioni politiche la gente non è andata a votare?
Anch’io ho provato grande fastidio, ho votato soprattutto per dovere morale. La gente comune si è stufata di una storia che si trascina da decenni, non ne può più di politici incapaci, di familismi, della corruzione dilagante, di vedere andare avanti gli ignoranti. In quest’Italia in cui non si riesce a fare una riforma, ma si smantellano o privatizzano i servizi fondamentali, serve un’inversione di tendenza. In America, che almeno ha questo di positivo, un ricercatore di trent’anni se capace, fa carriera, si vede aprire dei laboratori, in Italia se è fortunato, deve fare l’assistente del cattedratico a 800 euro al mese. La gente non vota più e così siamo arrivati ad essere governati da un’oligarchia fascista che rappresenta circa il 20 per cento del 40 per cento che ha votato.
La sinistra in cosa ha sbagliato in questi anni?
Si è divisa in tanti gruppetti in cui ognuno vuol fare il capo e nel contempo si è distaccata dalle istanze dei più deboli. Il Partito Democratico, che avrebbe dovuto essere il partito dei meno abbienti, è diventato d’élite, si è imborghesito, è diventato troppo liberale, cedevole alle istanze degli americani, delle multinazionali, dei grandi gruppi privati. Non mi ritrovo più, non ho più punti di riferimento, alla mia età mi sento “antico”…
Oggi ha senso iscriversi all’Anpi?
Oggi più che mai! Con persone al governo come La Russa, con le sue dichiarazioni su Via Rasella (quelli uccisi furono una banda di semi pensionati e non nazisti, nda), o la Meloni che ha detto che l’eccidio delle Fosse Ardeatine fu dovuto al solo fatto che si fosse italiani, non perché partigiani o ebrei, il pericolo fascista è incombente. Fossi stato al posto di Mattarella, garante della nostra Carta, ne avrei chiesto le dimissioni. È fondamentale, oggi più di prima, combattere il fascismo, essere contro il totalitarismo e l’autoritarismo. Anni fa ebbi in proposito un violento scontro con Marcello Veneziani, che sosteneva l’autorità dello Stato. Gli contrapposi come lo Stato non debba essere autoritario, bensì autorevole, fatto cioè da persone perbene, oneste e che operano nell’interesse della comunità, dando così anche il buon esempio ai suoi cittadini.
Floriana Mastandrea
Pubblicato giovedì 2 Novembre 2023
Stampato il 21/11/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/terza-pagina/forme/elio-rumma-larte-per-capire-e-cambiare/