Fra mito e leggenda, la pittura di Michelangelo Merisi, detto Caravaggio (1571-1610) è giunta fino a noi, in un crescendo di apprezzamenti che sembrano non avere mai fine. Roberto Longhi, di cui quest’anno ricorre il cinquantenario dalla morte, è lo storico dell’arte che, con i suoi studi puntuali, più di tutti ha contribuito a restituire la giusta immagine del pittore secentesco. Caravaggio, infatti, fra i suoi contemporanei e anche nei secoli successivi, è stato duramente attaccato dalla critica e le sue opere, spesso, non hanno goduto di buone recensioni. Oggi, al contrario, il nome di Caravaggio è un’istituzione, capace di muovere cifre da capogiro nell’industria delle mostre. Quello che più ci preme è però capire la potenza del suo lavoro. Un lavoro eretico, rivoluzionario e libero. Un lavoro che ha cambiato per sempre la storia dell’arte.
Nessuno prima di Caravaggio ha avuto il coraggio di stabilire con la realtà un rapporto diretto e di usare la sua arte per mettere a nudo l’esistenza umana. Un compito non certo facile, spesso osteggiato, non capito e criticato. «Non può sorprendere – scrive Roberto Longhi in un saggio interamente dedicato a Caravaggio – che gli storiografi del Seicento più romanzevole e del più romantico Ottocento si industriassero a trasformare ogni passo, fin dai princìpi, ad uso di un ritratto spiccatamente popolare (ciò che per essi suonava “plebeo”) e cioè adatto a spiegare la spregiudicata e, si diceva, “indecorosa” naturalezza dell’artista».
Caravaggio, difatti, si occupa del “vero” e non del “bello”: non copia la natura ma osserva la realtà dei fatti. La sua arte non lascia spazio all’immaginazione, ma si immerge nella realtà. L’artista compie una vera e propria rivoluzione: dipinge nuovi soggetti, racconta i fatti religiosi come mai nessuno prima di lui aveva osato fare. Esce, cioè, dalla cornice convenzionale della pittura classica, per approdare alla simbolizzazione della vita quotidiana.
Caravaggio, fin da subito, dimostra tutta la sua capacità nel vedere le cose in modo nuovo. «Con quel suo chiodo fisso di una pittura fedele alla realtà – riferisce Longhi – era prevedibile che, nella città tra manieristica e bigotta di Sisto V, egli dovesse sembrare un irregolare, se non proprio un eretico. A Roma non si chiedeva verità alla pittura, ma “devozione” o “nobiltà”; nobiltà di soggetti e di azioni, a qualunque mitologia appartenessero, e secondo un’inventiva che poteva oscillare dalla tetraggine della stretta Controriforma alla volante ma vacua fantasia degli ultimi manieristi». Caravaggio sceglie di mostrare la verità, senza aver paura di mostrare il brutto. Al di fuori di ogni convenzionalismo, affronta i problemi artistici in modo nuovo e, per questo, viene bollato come “naturalista”.
La sua pittura è audace e le soluzioni pittoriche da lui scelte sono così innovative da suscitare proteste e rifiuti. Come racconta Longhi, Caravaggio distrugge «le due grandi riserve iconografiche dell’uso corrente: la mitologia sacra e la profana”. L’artista fa «tabula rasa del costume pittorico del tempo che (…) aveva elaborato una partizione in classi del rappresentabile, che, trasposta socialmente, non poteva idoleggiarne che i gradini più alti. Ma il Caravaggio si rivolgeva alla vita intera e senza classi, ai sentimenti semplici e persino all’aspetto feriale degli oggetti, delle cose che valgono, nello specchio, al pari degli uomini, delle figure».
Arrivato a Roma alla fine del XVII secolo, Caravaggio poco più che ventenne dipinge quadri dove il soggetto principale non è la figura umana, stabilendo di fatto che anche la natura morta può essere un soggetto “alto”. L’esempio più celebre è la celebre Canestra di frutta (1594-98), conservata oggi alla Pinacoteca Ambrosiana, a Milano, conosciuta per essere stata anche l’immagine della banconota da centomila lire. Una canestra semplice, in vimini, con della frutta sana e pure bacata.
Caravaggio annulla la distinzione fra i generi, fra i soggetti di storia o religiosi e quelli “di natura”, che si andavano disegnando per diletto o decorazione: una vera e propria eresia. Ma l’artista lo dice apertamente: «Tanta manifattura gli è a fare un quadro buono di fiori, come di figure»; il punto dunque, non è più il soggetto ma è il suo valore estetico. Valore che solo l’artista può dargli. Un’affermazione questa quanto mai audace perché, a quei tempi, a scegliere i soggetti sono i committenti, ovvero gli ordini religiosi o i nobili collezionisti e mai l’artista, il cui compito è solamente quello di dipingere bene ed essere al servizio del potere. Caravaggio non ci sta e, da artista libero quale è, sceglie di mette in secondo piano il soggetto a favore dell’arte.
E non solo. Quando poi decide di occuparsi di soggetti religiosi, Caravaggio non fa sconti a nessuno. Sempre a Roma, realizza un soggetto comunissimo a quei tempi, la Maddalena penitente (1595, oggi alla Galleria Doria Pamphilj, a Roma): è un brano dal vero che ritrae una ragazza che piange su una sedia. La ragazza in questione è Anna Bianchini, una prostituta con cui l’artista intrattiene una relazione. Anche in questo caso, Caravaggio compie una vera e propria rivoluzione, in cui la vita di tutti i giorni entra in un quadro sacro.
Ancora più coraggiosa sarà la scelta di dipingere, intorno al 1600, il Martirio di San Matteo, conservato nella Cappella Contarelli della chiesa di San Luigi dei Francesi a Roma. Cappella in memoria appunto del cardinale francese Matteo Contarelli, ministro delle finanze del papa. Caravaggio realizza un’opera cruenta, prendendo spunto da un tema desunto da una leggenda etiopica, in cui il re Irtaco, smascherato dall’apostolo Matteo per aver palesato le sue mire illecite su sua figlia, lo fa colpire dai suoi fedeli, mentre sta battezzando i neofiti. Caravaggio porta dentro una chiesa romana un “fattaccio di cronaca nera”: il santo viene trafitto e ucciso dalla squadraccia dei bravi, rovesciato sotto i gradini dell’altare. Sullo sfondo alcuni astanti, fra cui l’artista ritrae se stesso. Alcuni di questi inorridiscono, altri sono timorosi e assistono attoniti al delitto, senza fare niente. Un’opera questa potente e cruda, capace di far riflettere anche l’osservatore moderno per la sua brutale attualità. Molti di noi, infatti, come il Caravaggio del quadro rimangono immobili, passivi e spaventati davanti alla violenza sui più deboli: dai migranti che muoiono in mare, ai bambini che continuano ad essere uccisi da guerre di potere. Forse la pittura di Caravaggio non può cambiare il mondo, ma senza dubbio la sua arte può farci riflettere e prendere coraggio. I suoi lavori, infatti, danno un giudizio, fotografano una situazione reale e ci costringono a prenderne atto.
Sulla stessa scia, anche la Decollazione di San Giovanni Battista (1608) conservato a Malta, nella Concattedrale di San Giovanni a La Valletta, in cui il povero santo viene barbaramente ucciso perché ha avuto l’ardire di criticare Erode e disapprovare la sua moralità. Caravaggio, con lucidità, racconta cosa fa il potere a chi dissente, a chi decide di non essere asservito. Non stupisce, quindi, che buona parte della critica contemporanea all’artista e quella dei secoli successivi abbia volutamente screditare l’artista e il suo lavoro. Caravaggio è descritto come un uomo non solo ribelle, ma anche violento, iracondo e furioso. E ancora: «Egli ha il torto di non attendere stabilmente allo studio; quando ha lavorato quindici giorni, si dà al bel tempo per un mese. Spada al fianco e un paggio dietro di sé, si porta da un campo di gioco all’altro sempre pronto a rissare e ad azzuffarsi, tanto che non è comodo accompagnarsi con lui». In una descrizione del 1672 appare addirittura «di color fosco, et haveva foschi gli occhi, nere le ciglia et i capelli, e tale riuscì ancora naturalmente nel suo dipingere». Insomma, Caravaggio ha talento ma per molti «è venuto per distruggere la pittura», nel suo intento di presentarci il mondo così com’è.
Se la critica è malevola nei confronti di Caravaggio, spesso, le sue opere non vengono neppure accettate. Il caso più emblematico è rappresentato dalla Morte della Vergine (1605), oggi conservato al Louvre di Parigi. I padri carmelitani di Santa Maria della Scala in Trastevere inorridiscono nel vedere la Vergine raffigurata come una prostituta, morta nelle acque del Tevere, livida in volto e abbandonata da Dio. Per questo rifiutano l’opera preferendone una più canonica, tutt’ora in loco, di Carlo Saraceni.
Caravaggio mette al centro della sua linea pittorica il corpo umano, ritratto con uno sguardo violento, anticonformista e per questo non viene accettato. I suoi quadri vengono tolti dagli altari delle chiese perché non sono rassicuranti, non danno speranza. Se la tradizione sacra, fino ad allora, aveva previsto squarci di cielo blu, luci e angeli, Caravaggio preferisce mostrare, su sfondi bui, corpi drammatici e imperfetti, corpi che hanno il potere di svelare l’essenza dell’animo umano.
L’artista ci ha regalato opere memorabili, dal Bacco (1596) al Riposo durante la fuga in Egitto (1595), dalla Resurrezione di Lazzaro (1608) alla Madonna dei pellegrini (1604), dai Bari (1594) a Davide con la testa di Golia (1610), ultima sua opera, nella quale ritrae se stesso nella testa mozzata di Golia. Un’opera drammatica, in cui l’artista fa ammissione di colpa per aver ucciso un uomo, Ranuccio Tommasoni. Caravaggio dopo il delitto è costretto a fuggire da Roma, perché su di lui pende una condanna a morte per decapitazione. Davide con la testa di Golia è un’opera pensata come dono per il cardinale Scipione Borghese, nipote di papa Paolo V, perché Caravaggio, ossessionato dalla sua condanna a morte, spera nella grazia e spera di tornare a Roma da uomo libero. L’artista morirà di febbre sulle spiagge di Porto Ercole il 18 luglio 1610.
Caravaggio muore a trentasette anni, lasciandoci un centinaio di opere che, con forza dirompente, sono riuscite a trasformare il mondo dell’arte e a coinvolgere un gruppo di pittori, i cosiddetti caravaggeschi, a lavorare secondo la sua maniera, ispirati dalla sua opera. Pittori questi attivi non soltanto in Italia ma in tutta Europa; pittori che hanno prodotto quadri realisti, su sfondi generalmente monocromi e illuminati da luce teatrale.
Possiamo dire che l’opera di Caravaggio è riuscita a superare il suo tempo, divenendo punto di riferimento per tutti i pittori delle generazioni successive: «Ribera, Vermeer, La Tour e Rembrandt – afferma Longhi – non avrebbero mai potuto esistere senza di lui e l’arte di Delacroix, Courbet e Manet sarebbe stata completamente diversa». Grazie ai suoi studi, Roberto Longhi, nel Novecento, ha ridato il giusto valore al lavoro di un grande artista, capace di stabilire con la realtà un rapporto inscindibile, compiendo una rivoluzione importantissima non soltanto per la storia dell’arte.
Nel 1951, Longhi scrive: «Dopo il Caravaggio, i caravaggeschi. Quasi tutti a Roma, anch’essi, e da Roma presto diramatisi in tutta Europa. La “cerchia” si potrà dire, meglio che la scuola; dato che il Caravaggio suggerì un atteggiamento, provocò un consenso in altri spiriti liberi, non definì una poetica di regola fissa; e insomma, come non aveva avuto maestri, non ebbe scolari».
Queste stesse parole, oggi, aprono Il tempo di Caravaggio. Capolavori della collezione di Roberto Longhi, la rassegna che ai Musei Capitolini (Palazzo Caffarelli), fino al 13 settembre, racconterà al pubblico la vicenda artistica di Caravaggio e dei suoi seguaci, attraverso la collezione privata di uno degli storici dell’arte più influenti del XX secolo. Pezzo forte della mostra il Ragazzo morso da un ramarro (1596), acquistato da Longhi alla fine degli anni Venti e i lavori di Mattia Preti.
Francesca Gentili, critica d’arte
Pubblicato venerdì 10 Luglio 2020
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