Caporalato: Forma illegale di reclutamento e organizzazione della mano d’opera, specialmente agricola, attraverso intermediari (caporali) che assumono, per conto dell’imprenditore e percependo una tangente, operai giornalieri, al di fuori dei normali canali di collocamento e senza rispettare le tariffe contrattuali sui minimi salariali. È la definizione nuda e cruda che dà il dizionario Treccani del caporalato.
Etimologicamente deriva dal latino classico “caput-capitis-capita” (capo) da cui il latino medievale “caporalis-capora” (capo) (fonte: Etimo.it). Secondo altri etimologisti deriverebbe invece dalla voce latina “corpus” (corpo) nel senso di “incorporato-arruolato” (anche in inglese la parola “corporal” ha lo stesso significato). Da questa valenza l’idea di caporalato e caporale sia in campo prettamente militare che in campo lavorativo come incaricato dell’arruolamento di giovani soldati o braccianti agricoli e di conseguenza con una minima autorità sia militare (grado di comando più basso) che civile (caposquadra-capoccia).
Il termine potrebbe derivare appunto da un soprannome attribuito a qualche graduato dell’esercito o a qualcuno a capo di braccianti o con la mansione di fattore in qualche azienda agricola. L’ipotesi di origine da soprannomi è rafforzata dall’accezione negativa del termine in quanto generalmente i caporali, avendo incarico del primo e diretto contatto con i soldati e – nel caso nostro – con i lavoratori, erano generalmente abituati ad amministrare la loro autorità di base in modo rude e sgarbato, tant’è vero che il termine è persino utilizzato per descrivere una moglie tiranna e prepotente. Quindi è anche possibile che in alcuni casi il capostipite fosse una personaggio che esercitasse, come si è già detto, in campo militare o civile la sua autorità con particolare protervia e durezza tanto da essere appunto battezzato con la più che meritata qualifica di “caporale”. Alcuni esperti sostengono la possibilità di ceppi del centro Italia originati da soprannomi legati al vocabolo marchigiano “capurà” che definisce il fascio di spighe sulla sommità del covone.
La definizione del termine caporalato, contenuta nel dizionario della lingua italiana Sabatini Coletti, risale al 1978. Inizialmente il caporalato era una delle piaghe delle campagne meridionali. Nel corso degli anni ha dovuto essere corretta perché, dai campi, il fenomeno si è esteso a molti altri settori. Ci sono gli scantinati degli italiani in cui in Campania si produce merce contraffatta e lo stesso avviene nei laboratori cinesi distribuiti nelle Chinatown di tutto il Paese, a Milano come a Bologna e a Prato. C’è una parte dell’industria del turismo che ogni estate accoglie in riviera villeggianti da tutto il mondo e ingaggia ragazzi non regolarizzati facendo della Romagna, della Versilia, della Liguria o delle coste calabresi un tutt’uno di sfruttamento, quando non di vera e propria prigionia nel caso degli stranieri che arrivano dai confini extra Schengen e a cui vengono sequestrati i documenti. E poi ci sono gli ultracinquantenni italiani, quelli espulsi dal mercato del lavoro e con scarse possibilità di rientrarvi, divenuti i nuovi obiettivi del caporalato. Vengono assorbiti in primis nella logistica e nei trasporti da cooperative «spurie» (forme di collocamento illegale in cui va tra il 30 e il 50 per cento dei compensi dei lavoratori), percepiscono un compenso che oscilla tra i 3,5 e i 4 euro all’ora e i loro turni di lavoro possono arrivare fino a 12 ore non scendendo in genere sotto le 10.
Un fenomeno che ha “assunto negli ultimi 25 anni caratteristiche nuove in relazione al fatto che molti braccianti e caporali sono di origine non italiana e rappresenta uno dei nodi principali della nuova «questione bracciantile», cioè della condizione drammatica in cui vivono e lavorano decine di migliaia di lavoratori stranieri nelle campagne.” (Domenico Perrotta, Vecchi e nuovi mediatori. Storia, geografia ed etnografia del caporalato in agricoltura).
Negli ultimi giorni l’attenzione di molti media si è concentrata sulle morti nei campi di pomodori della Puglia. Ma ciò potrebbe determinare una visione parziale. Si rischia di considerare il caporalato come un fenomeno endemico del sud Italia ma in realtà coinvolge molte altre regioni: dalla Lombardia al Piemonte, l’Emilia Romagna, la Toscana, i territori della Campania, la Basilicata, Puglia, Calabria e Sicilia.
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Girolamo Borsellino, laureato in lingue, studioso del linguaggi
Pubblicato venerdì 11 Settembre 2015
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