Un palco spoglio, solo le quinte nere. Tre musicisti in scena e Andrea Pennacchi al centro a raccontare una storia.
Quella di suo padre Valerio, classe 1929, tipografo compositore e giovanissimo partigiano di una banda garibaldina attiva nel padovano. Nome di battaglia: Bepi.
Assieme a Vladimiro, Tombola e Pippo, coordinati dal tenente degli alpini Stelio Luconi reduce dalla Russia, avrà incarichi vari: recupero materiali dagli aviolanci, produzione e diffusione di stampa clandestina.
Il tradimento di uno di loro farà internare tutti i membri della banda nel campo di lavoro e sterminio di Ebensee, in Austria. Torneranno a casa soltanto in tre.
Questa è la storia di Valerio, simile alla storia di tanti altri italiani che dopo l’8 settembre decisero da che parte stare. Una storia di ragazzi, innanzitutto, di incoscienza, di coraggio e avventura, una storia di gioventù costretta a bruciare in fretta, una storia di lager e abominio nazista, di impietosa lotta per la sopravvivenza, di voglia di vendetta. Un racconto impreziosito e approfondito dalla musiche che ora scavano e inaspriscono il dolore nello spettatore, ora lo leniscono assieme a qualche risata che scappa anche – e per fortuna – in mezzo all’orrore.
Questa è la storia di Valerio, ma “Mio padre” racconta anche la storia di suo figlio Andrea, che ha sentito il bisogno di fare i conti chi fosse stato Bepi, così ritroso in famiglia e così generoso quando si trattava di incontrare gli studenti per condividere la sua testimonianza e invitare a non abbassare la guardia.
Andrea, come mai hai ricostruito la storia partigiana di tuo padre soltanto dopo la sua morte?
Non ho una risposta buona: ho sempre amato e stimato molto mio padre, ma ho dato per scontato la sua storia, impegnato com’ero a risolvere i miei guai personali e a sentirmi un po’ indegno di questa eredità. Solo dopo la sua morte, attraverso un percorso sia professionale sia personale (che ha compreso anche un periodo di terapia) mi sono sentito in grado di raccontare la sua storia anche attraverso il racconto della mia difficoltà nel venire a patti con essa che, lungi dall’essere “sbudellamento del sé” (così lo chiama l’attrice Laura Curino), ho scoperto essere specchio di una difficoltà diffusa a venire a patti con la storia recente del nostro Paese.
Come hai fatto a ricostruirne la vicenda? Hai seguito delle tracce?
Racconto tutto ciò in breve nello spettacolo: tracce esili e documenti ufficiali, integrati dalla memoria ancora lucida di mio “zio” Vladimiro e da ottimi libri sulla lotta partigiana, primo fra tutti “I piccoli maestri” di Meneghello, così amato da mio padre.
Dalla scoperta e dalla ricostruzione della sua storia partigiana alla decisione di portarla in teatro quanto tempo è passato? Ma soprattutto cosa ti ha spinto a una tale scelta?
Non l’ho mai “scoperta”, essa ha innervato la mia vita fin dalla nascita: ero circondato di partigiani, il fratello di mia madre aveva condotto azioni cruente e fatto saltare un ponte, mio nonno materno era stato ucciso dai tedeschi in fuga, solo per citare due esempi molto vicini al cuore. Posso dire che ero schiacciato dalla memoria partigiana, soprattutto nella sua versione eroica: come essere all’altezza di tali imprese, di un coraggio così smisurato? Ho sentito che era arrivato il momento di raccontare quando, da un sano revisionismo storico, si è passati a sminuire, o addirittura demonizzare la lotta partigiana. I portatori di memorie stavano scomparendo, non si potevano più difendere, ho pensato allora che fosse arrivato il momento di ingaggiare una lotta con le mie resistenze e di provare a raccontare la Resistenza per come la conoscevo.
Il sottotitolo dello spettacolo è “Appunti sulla guerra civile” e questo aspetto del conflitto è straordinariamente tradotto nella sovrapposizione di due canzoni popolari, così celebri e così antitetiche: “Bella ciao” e “Le donne non ci vogliono più bene”. “Civile” però è un attributo non ancora riconosciuto all’unanimità dagli studiosi, qual è il tuo parere a proposito?
Nel racconto avevo composto un dialogo al bar tra mio padre e Ciccio (un personaggio di fantasia, basato però su documenti veri), che per le stesse motivazioni farà una scelta di segno opposto. Per me quella scelta è sbagliata, ma non possiamo dimenticare che a farla – a parte qualche vero e proprio criminale – furono cittadini non dissimili da mio padre. Per me “civile” indica la lotta intestina di un Paese che ancora non si è risolta.
Infine una domanda più scomoda: e se tuo padre avesse deciso di combattere la Resistenza dall’altra parte, ne avresti comunque ricostruito la vicenda e l’avresti messa in scena? Credi che la tua memoria familiare sia stata determinante per farti riconoscere a pieno i valori della Repubblica italiana?
È difficile dire cosa e chi sarei stato, con un padre e una madre diversi, dato che la mia storia familiare è ciò che mi ha reso me, ma l’Andrea che ho imparato a conoscere la racconterebbe comunque quella storia, perché anche il “lato oscuro” è fondamentale per capire e apprezzare la nostra Repubblica, soprattutto in questi momenti altrettanto oscuri. Sono cose che vengono dalle viscere, non puoi resistere più di tanto.
Pubblicato mercoledì 1 Aprile 2020
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