«D’orata» per “dorata”, «è bene che non si ripetino», «a scapito di» nel senso di “a causa di”… Ho dovuto aspettare un po’ prima di pensare e scrivere queste righe, il tempo necessario a sbollire l’esasperazione da abuso di penna rossa su temi di studenti di scuola superiore, necessario a mettere da parte troppo facili lamentele e accuse. Solo così, il più possibile lucida e obiettiva, ho potuto rileggere d’un fiato botte e risposte che in questi ultimi giorni si sono susseguite sulla “qualità dell’italiano” dei nostri universitari. Sono partita dalla “Lettera dei 600” che critica la loro scarsa preparazione, poi ho scorso la “contro-lettera dei linguisti italiani” e, infine, ho selezionato alcuni dei commenti fioriti attorno a questi appelli, scartando quelli meramente polemici.
Devo dire che i testi più inutili, al fine di immaginare una soluzione, sono proprio – da un lato – quello che ha denunciato lo “scandalo” e – dall’altro – quello che lo scandalo ha tentato di ridimensionare, se non di negare. Tuttavia sono serviti a suscitare un dibattito che – nei casi migliori – è stato informato, ragionevole, rispettoso della complessità della materia trattata.
Ecco l’idea che me ne sono fatta.
È vero che non solo molti studenti, ma persino molti laureandi scrivono male, in maniera inaccettabile anche in una scuola primaria.
È falso credere che sia un’ennesima e non organica riforma della scuola che imponga dettati ortografici e comprensioni del testo (già attualmente previsti dalle “Indicazioni Nazionali“) a risolvere un problema ben più complesso: sarebbe davvero un lusso che non possiamo permetterci illudersi che la questione sia di stretta ed esclusiva pertinenza grammaticale/ortografica.
È vero tuttavia che gran parte degli “addetti ai lavori”, sia i firmatari del j’accuse che i linguisti della difesa – forse troppo compresi nel loro ruolo – imputano alla scuola, in particolare alla qualità della didattica dell’italiano, sia la responsabilità “diabolica” dei danni che la loro “miracolosa” risoluzione.
Ma è falso (e ingenuo o presuntuoso) pensare che solo la scuola sia la responsabile e che solo la scuola, quella del primo ciclo in particolare, possa fornire il rimedio: occorrono politiche di ampio respiro e medio lungo termine per migliorare e sincronizzare la formazione e la cultura di tutte le fasce di età, affinché si arrivi davvero a un “apprendimento permanente” per giovani, adulti e anziani.
È falso credere, purtroppo, che tali provvedimenti siano al momento al centro dell’agenda politica nazionale (e non solo); altro è quello che la società e il mercato chiedono: folgoranti carriere professionali, successo economico e/o mediatico; l’affannosa rincorsa a un qualsiasi consenso da parte della politica se ne infischia del “bello stilo”: scrive Claudio Giunta – docente di letteratura italiana all’università di Trento – che «non è molto importante saper scrivere nell’Epoca dell’abbondanza». È dura ammetterlo, specie da parte di chi nella scuola lavora e fa dell’insegnamento dell’italiano il proprio mestiere, ma purtroppo forse è così: «Si scrive peggio soprattutto perché l’infarinatura umanistica che era tenuta in gran conto fino a qualche generazione fa è diventata secondaria, a fronte di altre competenze, o a fronte di niente, ed è per esempio perfettamente possibile entrare a far parte della “classe dirigente” senza aver letto dei libri e senza saper scrivere in italiano». E se al guastarsi delle parole per esprimerlo conseguisse, a lungo andare, anche un deterioramento del pensiero? Del resto Sciascia, in Una storia semplice, sosteneva che «l’italiano non è l’italiano ma il ragionare». La pensano così anche Christian Raimo e Simone Giusti: l’assenza di politiche articolate e complesse sull’apprendimento permanente porta a un peggioramento della qualità della vita, non basta la correttezza ortografica a renderla migliore, occorre la literacy, ossia “la capacità di comprendere, valutare e usare in maniera consapevole testi scritti per far parte della società, raggiungere i propri obiettivi e sviluppare la propria conoscenza e le proprie potenzialità” (definizione dell’Ocse); «senza un adeguato livello di padronanza in literacy […] le persone non fanno brutta figura all’università, ma hanno una vita più breve e maggiori possibilità di ammalarsi, hanno meno senso civico e meno fiducia negli altri, lavorano di più per guadagnare di meno».
Lasciare che questa polemica si attizzi e, prima o poi, inevitabilmente si sgonfi all’interno delle mura delle università, decretando magari il vincitore a suon di 4 o 10 e lode, è sprecare un’occasione importante. Che cosa chiediamo ai bambini e ai ragazzi che siedono sui banchi di scuola prima e stentano a trovare un lavoro poi? Che sappiano apostrofare senza errore e scrivere un curriculum vitae con maiuscole e a capo al posto giusto o che sappiano essere cittadini consapevoli e liberi anche perché attrezzati linguisticamente a leggere, interpretare e trasformare il mondo in cui vivono?
Forse era meglio che non mettessi il naso in appelli e contro-appelli: ne sono uscita con più rabbia di quando sottolineo tre volte “conoscienza”.
Preferirei che ad autovalutarsi fossero proprio quegli insegnanti – dai maestri ai docenti universitari – che hanno dimenticato come si fa un serio esame deontologico, troppo presi alcuni dal bocciare gli asini per sentirsi severi e competenti, altri dall’indulgere con gli stessi asini per giustificare il proprio fallimento nel non aver saputo dare loro gli strumenti per riscattarsi.
Preferirei che occuparsi e discutere di istruzione tornasse a essere affare e priorità di tutta la società: delle famiglie e della politica, per prime, e vorrei che anche loro si autovalutassero con rigore e giustizia.
“Leggere e scrivere bene servono a vivere meglio, non solo a prendere bei voti”: copiatelo tutti 100 volte per domani.
Pubblicato venerdì 17 Febbraio 2017
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