Giorgio Caproni
Giorgio Caproni

Giorgio Caproni (1912-1990), di cui presentiamo qui un racconto natalizio, pubblicato sul numero 24 di Patria indipendente del 20 dicembre 1953, è stato uno dei massimi poeti italiani del ’900.

Livornese, iniziò nel 1935 la sua lunga carriera di maestro elementare a Rovegno, paese di montagna nell’Alta Val Trebbia, dove si ritrovò meno di dieci anni dopo, nel 1944, quando prese parte alla guerra di Liberazione “senza sparare nemmeno un colpo”. “Fui eletto commissario del comune di Rovegno (qualcosa come Sindaco) – ricordò lo stesso Caproni nel 1985 – perché cercassi di provvedere alle più urgenti necessità alimentari della popolazione, e sempre per incarico di quel Comando, riaprii a Loco, unico insegnante, la scuola elementare che per forza doveva funzionare a singhiozzo”.

L’orrore dei diciannove mesi di guerra e in particolare il ricordo delle violenze esercitate dai mongoli alleati dei tedeschi sulla popolazione inerme, gli ispirarono diversi racconti (Il labirinto, La tromba del silenzio, Genova non cede) e l’eco di quegli eventi è presente anche nella raccolta di versi I lamenti composti tra il 1944 e il 1947, e inclusi nella sezione Gli anni tedeschi de Il passaggio d’Enea.

 

Cadeva di quando in quando una zolla di neve dagli alberi (forse un superstite riccio di castagna, appesantito dalla neve), e mentre quel soffice e leggero tonfo rendeva ancor più augusto, sotto una luna fredda come una moneta d’argento, il silenzio della notte, Pablo, in quella lontana notte del ’43 (o del ’44: è difficile, ahimè, ricordare con esattezza quegli anni), Pablo era l’unico ad aver voglia di parlare.

— Di tutte le feste dell’anno – diceva – il Natale è …

Senonché nessuno stava ad ascoltare le sue parole. Stavano tutti e quattro a sentire quei morbidi tonfi (ogni zolla cadeva, come una molle eco in corrispondenza d’un lontano ovattato boato di mortaio) e se tutti e quattro avevano piacere che Pablo continuasse a parlare, era soltanto per veder la nuvola di vapore tepido che, nell’albore lunare, usciva dalla sua bocca: era soltanto per vedere (giacché non lo potevano sentire, mentre le loro dita gelavano reggendo lo «sten») un poco d’umano tepore.

— Il Natale, – diceva…

Ma il Natale non era sotto quegli alberi vetrificati di gelo e di luna. Non era nemmeno giù a valle, dove una Trebbia ridotta in enormi lastroni di ghiaccio, color bottiglia sotto la luna, non scorreva più accanto al paese che teneva spenti tutti i suoi lumi, e nemmeno era in città: non era più in nessuna parte della terra, forse, o almeno non era più in nessuna parte della terra dov’erano entrati «loro», quelli che allora si chiamavano i tedeschi, anche se non era giusto chiamarli così, non essendo vero che tutti i tedeschi fossero «loro».

I mortai battevano remoti e velati (erano «loro» che stavano ritirandosi, e seminando a caso la morte), e quasi ad ogni colpo, forse mentre qualcuno (un bambino, una ragazza, una madre) moriva per via di quel colpo sotto le macerie d’un muro, di nuovo una zolla di neve si staccava dagli alberi, e cadeva soffice proprio mentre Pablo continuava a parlare, e qualcuno moriva.

— Il Natale, – diceva Pablo…

Sotto, a fondo valle, brillava di ghiaccio e di luna il paese, con tutti i suoi lumi spenti, e se ne vedeva, velato anch’esso di ghiaccio e di luna, il campanile. Ma mentre le campane tacevano, e nemmeno un lume era acceso, Pablo perché continuava a parlare (in quella notte tra il 24 e il 25 dicembre) del Natale che ormai non esisteva più nemmeno lì, a pochi chilometri, nel paese?

— Il Natale, – diceva Pablo…

Ma ora Athos non lo ascoltava più: non guardava più, nemmeno, la nuvola di vapore tiepido che usciva dalla sua bocca, e s’era messo a pensare al viso di Lumarzo, al viso di Pantera, di Sardegna, che la sera prima, con quei nomi finti (nemmeno i nomi potevano essere più veri), avevano visto morti proprio lì giù, in paese, con sotto gli occhi i lividi dei calcagni di «loro» (di quelli che allora si chiamavano «i tedeschi»), i quali dopo averli uccisi avevano spaccato le ossa di quei visi montandoci sopra coi loro calcagni ferrati.

— Il Natale, – diceva Pablo…

Ma il Natale, pensava ora Athos, che altro mai era il Natale, se non il nome vero di quei compagni morti, e morti proprio anche perché il loro nome, appunto come il Natale, ridiventasse vero sulla terra?

Continuavano a cadere, soffici, le zolle di neve agli echi remoti dei mortai, e chi può più ricordare, ora, se quella era una notte del ’43, o del ’47?

Era una notte, questo è certo: una notte dell’anno e dell’uomo.