Da mesi i media ci propongono immagini e notizie di migranti in cerca di salvezza: ogni giorno gli italiani pranzano o cenano con scene e storie tragiche, finendo così per abituarsi anche a questa, di tragedia. Nel contempo, gli italiani pranzano e cenano anche con le risposte che la politica tenta di dare a questo evento da molti ritenuto epocale ed esse sono generalmente di due tipi: emergenziali o allarmistiche.
La risposta emergenziale è quasi sempre quella di governo: si prova a gestire l’arrivo di tantissimi disperati in pochissimo tempo. La risposta allarmistica è quella delle destre: noi prima di loro, loro che portano via a noi roba e sicurezza.
Esistono però, sebbene spesso solo emotive, anche le risposte dei semplici cittadini: pietà, che nel migliore dei casi si traduce in concreta solidarietà; odio, che nel peggiore dei casi si traduce in concreti atti di razzismo; indifferenza che, col passare delle settimane, diventa l’atteggiamento più diffuso.
In un recente articolo uscito su “Internazionale” (http://www.newstatesman.com/politics/2015/08/europe-shouldn-t-worry-about-migrants-it-should-worry-about-creeping-fascism), la giornalista britannica Laurie Penny registrava, allarmata, il continuo e inconscio diffondersi di un clima sempre più intollerante e xenofobo nel Regno Unito e in tutta Europa, dovuto al fatto – argomentava – che per sopportare meglio austerity e caos economico è conveniente generare un nemico comune che distragga la gente dai propri problemi. E proseguiva: «Il fascismo nasce quando una società profondamente divisa dal punto di vista sociale viene spinta a unirsi contro una presunta minaccia esterna. È quel terrificante “loro” che dà la falsa impressione che ci sia un “noi” da difendere».
Dalle parole della Penny emerge un’importante domanda: chi ha il compito di avvertire una società che l’impressione di tale minaccia esterna è falsa?
Restiamo pure in Italia e passiamo in rassegna i candidati: politici incapaci di pensare a soluzioni serie e organiche, specie sul lungo periodo, molti dei quali tendono anzi a fare della paura uno strumento di consenso elettorale; mezzi di comunicazione di massa sempre più schiavi dell’audience (talk-show simili a ring per scontri politico-elettorali; quotidiani in cronica astinenza di lettori e, se online, intrappolati dal fattore “click”); le ideologie cadute col muro di Berlino e veicolate da partiti “vecchi” (eppure un tempo capaci non solo di orientare la scelta in cabina elettorale, ma di proporre una più complessa e complessiva chiave di lettura della realtà entro cui collocare il presente e immaginare il futuro). Nessuno che ci convinca.
Restano gli intellettuali (registi, scrittori, filosofi scienziati…) che, grazie alla competenza e autorevolezza guadagnate nei rispettivi ambiti di studio e riconosciute loro dalla critica e dal pubblico, sono in grado di mediare alla società le notizie, cioè sono capaci di fare opinione sulle notizie, di ricostruire dal particolare degli accadimenti un senso generale dell’accadere delle cose.
Intellettuali, dunque: se ne avverte forte l’esigenza in un tempo di crisi della critica, dell’economia, della politica e della morale, in cui sono scomparse le grandi agenzie di senso (tranne rare eccezioni, come la Chiesa di Papa Francesco) di una trentina d’anni fa. Ma dove sono finiti gli intellettuali?
Depotenziate da decenni di politiche che, nelle annate buone, hanno investito altrove e, in quelle cattive, hanno tagliato proprio lì, scuola e università faticano a far sentire “fuori” quel che si dice nelle loro aule. Spariti i partiti di un tempo, sono venuti meno anche gli intellettuali engagés che delle diverse ideologie erano elaboratori e divulgatori. Quasi irriconoscibili anche i grandi mass-media nazionali, attenti non tanto alle regole della corretta informazione quanto a quelle del mercato o della politica: ad essere engagées (e nel senso spesso deteriore di tendenziose) oggi sono proprio testate giornalistiche ed emittenti televisive, incapaci di essere ancora quello spazio terzo e autorevole che può ospitare e diffondere voci altrettanto autorevoli; non solo autorevoli, le voci degli intellettuali, ma anche credibili (ancorché schierate) e rispettabili perché responsabili delle proprie idee e parole, nella comunità scientifica in cui operano come nella società.
Defraudati così dei loro habitat più congeniali, quelli nei quali dovrebbero altresì e giustamente vedere riconosciuto anche economicamente il loro contributo al «progresso spirituale» del Paese (Costituzione, art. 4), gli intellettuali sono stati costretti, quasi mai per scelta ma per sopravvivere in una società crudamente capitalistica, a tramutarsi in meri “lavoratori della conoscenza”, il cui sapere specialistico non interessa più anche per la possibilità di ricostruire un senso più generale e complesso della realtà, ma interessa solo nella misura in cui può essere monetizzato.
Eccoli pertanto cercare nei salotti della TV, dove si combatte qualsiasi battaglia purché il pubblico non cambi canale, quell’autorevolezza che ieri invece si conquistavano, per esempio, nelle istituzioni (si legga anche L. Mastrantonio, Intellettuali del piffero, Marsilio 2013).
Ciò fa sì che in un momento delicatissimo come questo, di crisi e perciò di trasformazione (e che questo sia un simile momento bastino a ricordarcelo queste straordinarie migrazioni), rischiano di mancare alla società gli intellettuali, mediatori politici e culturali fondamentali proprio in tali trapassi; rischiamo così – per tornare alla domanda iniziale – che nessuno ci aiuti a distinguere il falso dal vero, svelandoci le contraddizioni di una realtà che impone senza alternative individualismo ed egoismo; che nessuno ci spieghi di nuovo, per esempio, perché non solo sia giusto ma anche “conveniente” – per una società che voglia dirsi sana – essere solidali, equi ed estendere quanti più diritti a quante più persone possibile. Essere antifascisti, insomma.
Fortunatamente intellettuali veri e propri ne circolano ancora, ma questo accade soprattutto nelle periferie, letterali e metaforiche, dove non è necessario patteggiare col mercato o lo share (lì Luperini indicava qualche anno fa, tra gli altri, Saviano); sta dunque anche a noi cittadini allora, oltre che allo Stato, riportarli al centro, ridare loro fiato e autorevolezza, ripristinare il loro spazio vitale che è, poi, anche il nostro e che misura la qualità del vivere nostro e di chi verrà, disperato e da lontano, a dividerlo con noi.
Pubblicato martedì 15 Settembre 2015
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