L’idea che la vita politica si basi su un legame sociale che – certamente – implica la liberazione dalle preoccupazioni legate ai bisogni elementari, ma non si esaurisce in benessere materiale, consumi, sviluppo economico, è totalmente estranea al modo di pensare attuale e alla lingua che l’esprime. L’Italia e «l’azienda Italia» e tutti devono «fare sistema», «fare squadra» perché possa funzionare, valorizzando «sinergie» sotto lo sguardo di un’anonima «governance», tutte parole della LNAe (ndr – l’inedito acronimo viene utilizzato da Zegrebelsky per Lingua Nostrae Aetatis, indicando così – spiega – “la lingua che si forma lungo i canali comunicativi dentro i quali ci è dato di navigare nel tempo presente”). Basterebbe pensare alla politica delle «tre I», slogan lanciato a suo tempo per sintetizzare il senso delle riforme nella scuola italiana: inglese, internet, impresa, tre parole che hanno un’anima «esecutiva». Dalla scuola si bandiva quella cosa così evanescente, ma così importante per tenere insieme una società senza violenza e competizione distruttiva, che è la cultura. I «piani di studio» diventano «piani-carriera» (LNAe): la carriera al posto dello studio! La scuola, davvero, si orientava allora verso il «saper fare», cioè verso la produzione di «risorse umane» finalizzate allo «sviluppo» (LNAe) dell’azienda e da utilizzare intensivamente fino al limite oltre il quale ci sono gli «esuberi».
La politica, a sua volta, è venuta configurandosi come il logico prolungamento di questa concezione del bene sociale. Così, il governo diventa il «governo del fare» il cui titolo di merito «assoluto» è di avere posto fine al «teatrino della politica» (LNAe) e di andar facendo. «Fatto» diceva un non dimenticato spot pubblicitario governativo costituito da un timbro sonoramente impresso su qualche foglio di carta. «Ambientalismo del fare» è un altro slogan che si può temere significhi non tutela ma distruzione dell’ambiente.
Per «fare», però, occorre «lavorare» e, così, quello che lavora, non quello che chiacchiera, è il governo buono. Bisogna «lasciarlo lavorare». Chi «si mette di traverso», oppure «rema contro» (sempre espressioni della LNAe) la squadra di canottieri che fa andare la barca non è un oppositore ma un potenziale sabotatore, uno che non ama l’Italia.
Non c’è dubbio che le chiacchiere inconcludenti siano uno dei mali della democrazia nei suoi momenti di degenerazione. Nessuno certamente auspica di cadere nelle mani di una «clasa discutidora», come ironicamente fu definita (Juan Donoso Cortés) la rappresentanza della borghesia ottocentesca nelle Camere dei deputati, che faceva bei discorsi mentre dietro le quinte dei riti parlamentari i governi, «comitati esecutivi» della borghesia (Karl Marx), badavano al sodo. Nessuno vorrebbe essere rappresentato da una casta di nullafacenti, come talora appaiono e più spesso sono fatti apparire i nostri rappresentanti in Parlamento. Ovvio, quindi, fare e lavorare. La lingua esprime questa esigenza. Ma ne mette totalmente in ombra un’altra, preliminare: il pensare, l’ascoltare, il dibattere, il deliberare: funzione propria del Parlamento.
Le parole sono importanti sia per quello che dicono, sia anche, però, per quello che non dicono, cioè nascondono dietro quello che dicono. Fare che cosa? Lavorare a che cosa? Ci sono tante cose da non fare, rispetto alle quali sarebbe bene non lavorare o lavorare contro. Si può lavorare per suicidarsi collettivamente correndo tutti insieme verso il baratro, oppure per arricchirsi a danno della collettività o per distruggere i beni pubblici a vantaggio di interessi privati, ad esempio. Ora, l’ideologia aziendalista del fare e del lavorare mette in evidenza, esaltandolo, il momento esecutivo e ignora, anzi nasconde il momento deliberativo. Chi decide, in che modo decide e che cosa decide?
Tutto questo è «assolutamente» fondamentale in democrazia perché rappresenta il momento formativo e partecipativo delle scelte politiche. La logica aziendalista, trasportata in politica, fa dell’efficienza l’esigenza principale: efficienza per l’efficienza. II fare per il fare: attivismo. Tante leggi, tante riforme: è la quantità a essere messa in mostra. Viene meno il rapporto tra il fare e il «che cosa fare», un rapporto che presuppone una divisione tra il realizzare e il determinare l’oggetto da realizzare. II fine dell’agire, naturalmente, esiste sempre. Nell’azienda, è dato di per sé: è la produzione di utili secondo leggi economiche. In politica non e così: la politica è essenzialmente decisione circa i fini, anche cambiando le leggi. Ridurla al fare, cioè alla mera esecuzione, significa semplicemente, i fini, tenerseli per sé e nasconderli agli altri, cioè sottrarli alla vista della democrazia, oppure mascherarli con parole d’ordine tanto generiche da non significare nulla. «Fare» e non (lasciar) «guardare».
Alla medesima logica appartiene il «decidere», per esempio nell’espressione «democrazia decidente», che ha preso piede anche nel lessico di parte di forze politiche d’opposizione: formula significativa non tanto per quel che dice, quanto per quel che occulta e che contiene l’implicito auspicio del rafforzamento dell’esecutivo, dell’abbattimento dei tempi della politica, dell’attività di governo non come governo ma come cibernetica, cioè come risposta automatica passiva agli impulsi provenienti dall’esterno. Anche a questo proposito: una democrazia sempre indecisa, inconcludente, non e nemmeno una forma di governo, è il dissolvimento del governo. Ma ciò che sembra prevalere nella scala delle importanze, al punto d’oscurare il resto, che infatti si omette, è il momento operativo. Operare è bene, ma operare bene è meglio. Ciò che viene passato sotto silenzio è, per l’appunto, ciò che dovrebbe garantire che non si operi male. Forza delle parole: il mezzo, cioè l’efficienza (fare, lavorare, decidere), da mezzo quale è, diventa il fine.
Pubblicato mercoledì 6 Aprile 2016
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